Questa è una storia vera, o almeno con un fondo di verità, che avrebbe potuto cambiare il corso della Storia e il destino di molti uomini. È la narrazione di un viaggio, durato vent’anni attraversando un oceano, due mari e tre continenti, per arrivare fino al Papa di Roma per chiedergli la scomunica di chi nel XVII secolo faceva la tratta degli schiavi. Il romanzo di Wilfried N’Sondé, congolese trapiantato a Parigi, oggi residente a Berlino, musicista ed educatore, pubblicato da 66THAND2ND col titolo di Un oceano, due mari, tre continenti non è solo l’epopea di un viaggio incredibile costellato di pirati, ammutinamenti, marosi, guerre e pericoli infiniti. Ma è la storia della difesa di un popolo, se non addirittura un continente, che intraprende da solo don Antonio Manuel, diventato sacerdote dopo essere stato Nsaku Ne Venda, uno dei tanti ragazzi di un villaggio congolese. La tonaca, lo studio, la religione, ma soprattutto la storia dei suoi avi e le sue radici, sono le armi di una missione impossibile, fallita al suo epilogo. Ma chissà quale Papa si sarebbe mai messo di traverso di fronte ai mercanti di esseri umani, che nel nome della civiltà e del progresso e dunque dell’arricchimento, per tre secoli hanno depredato l’Africa del bene più prezioso, il suo popolo? A ricordarci di don Antonio Manuel detto il Nigrita, c’era fino a poco fa solo un busto marmoreo nella facciata barocca della chiesa di Santa Maria Maggiore a Roma. Ora questo romanzo che scorre veloce, come acqua di mare. Fabio Poletti

Wilfried N’Sondé
Un oceano, due mari, tre continenti
traduzione di Stefania Buonamassa
2020 66THAND2ND
pagine 224 euro 16

Per gentile concessione dell’autore Wilfried N’Sondé e dell’editore 66THAND2ND, pubblichiamo un estratto del libro Un oceano, due mari, tre continenti.

Sono venuto al mondo intorno all’anno di grazia 1583, con il nome di Nsaku Ne Vunda, e sono stato battezzato don Antonio Manuel il giorno in cui fui ordinato prete dal vescovo della Chiesa cattolica del regno del Congo. Oggi, la statua di marmo eretta a Roma in mia memoria nel gennaio 1608, per volere di papa Paolo V, è chiamata semplicemente «Nigrita».
La mia voce si è spenta più di quattrocento anni fa, le mie parole si sono perse nel silenzio della morte ma, con i curiosi che si soffermano un istante davanti al mio busto, vorrei condividere l’amarezza per essere stato ridotto, con il passare dei secoli, al colore di cui un tempo brillava la mia pelle. Mi piacerebbe raccontare loro la mia storia, parlare delle mie credenze, delle leggende del mio popolo, evocare la follia degli uomini, la loro grandezza e la loro bassezza. Se i passanti incuriositi potessero ascoltarmi, si renderebbero conto che sotto la pietra che contemplano distratti sopravvive una memoria dimenticata, una memoria di schiavi, di oppressi e torturati, incontrati durante un lungo e periglioso viaggio attraverso un oceano, due mari e tre continenti. Ho affrontato mille peripezie e ne sono uscito trasformato in una voce foriera d’amore e di speranza: incarno ormai il ricordo di una moltitudine di donne, uomini e bambini che non hanno mai rinunciato al sogno di libertà incastonato nel profondo dei loro cuori.
Se i passanti potessero ascoltarmi mentre sciolgo i nodi del mio passato, comprenderebbero che esisto ancora, altrove. Sorvolo le vallate eterne dove, cullati dal soffio dello Spirito Santo, vegliano gli antenati defunti, lì dove la violenza si trasforma in dolcezza, la sofferenza diviene compassione, quando la rilevanza delle umane circostanze si sgretola e dà alla luce la giustizia, la saggezza, il perdono.
Nonostante sia destinato a errare nei secoli dei secoli lontano dal mio paese natale, laggiù, sotto l’equatore, sarò sempre un figlio del Congo. Non della terra, ma dello spirito di nove donne che, tanto tempo fa, hanno dato origine al mio popolo.
La leggenda che mi è stata raccontata quando ero bambino narra che quelle donne vissero da qualche parte non lontano dalla foce del Niger. Da poco gli umani erano riusciti a padroneggiare la scienzaipic della metallurgia e, grazie a quest’arte, erano stati in grado di creare utensili più adatti al lavoro nei campi, strumenti così efficaci che gli abbondanti raccolti avevano favorito la rapida crescita della popolazione. Con il passare del tempo, gli agricoltori ammantarono di un’aura mistica coloro che custodivano le tecniche di trasformazione dei minerali nascosti nella roccia in un materiale incandescente e poi in oggetti di qualsiasi foggia. I fabbri si unirono dunque in una casta rigidamente chiusa, conservando gelosamente il proprio sapere e vendendo a caro prezzo i propri servizi. Acquisirono così uno status speciale, arrogandosi una serie di benefici che ben presto furono convertiti in altrettanti privilegi. Una manciata d’individui impose una tassa a coloro che dipendevano dalle loro abilità e nominò addirittura un sovrano, padrone assoluto dei beni e della vita dei propri sudditi. Il monarca regnò incontrastato su tutto il popolo, esercitando la propria egemonia in modo terribile. Per consolidare e poi mantenere il potere, si dedicò non solo alle scienze occulte, al fine di terrorizzare le anime semplici, ma fece in modo di accrescere la propria supremazia ordinando la fabbricazione di spade, frecce, armature e lance. Quindi se ne servì per armare un esercito feroce, incaricato di reprimere nel sangue ogni opposizione all’ordine appena costituito.
Le mie antenate erano ancora adolescenti quando furono date in spose a un principe del tempo, il figlio primogenito della sorella maggiore del re, l’erede al trono, secondo l’usanza dell’epoca. Si dice che il principe avesse un cuore nobile e generoso, rattristato dalla miseria in cui versavano gli agricoltori schiacciati dalla violenza delle armi e accecati dalla magia nera. Determinato a porre fine alle brutali repressioni nel paese, si oppose con fermezza allo zio. Il conflitto segnò il destino delle donne che, più avanti, avrebbero dato alla luce i fondatori dei primi villaggi la cui prosperità sarebbe cresciuta fino a dare origine al regno del Congo. All’indomani dell’ennesima discussione, dopo essere stato maledetto dal re fino al suo ultimo discendente, il giovane e coraggioso principe fu ritrovato morto: vittima di un terribile maleficio, era morto in piedi, con gli occhi spalancati e il volto contratto in una smorfia d’orrore.
Da centinaia d’anni, persiste una diceria, passa di bocca in bocca e racconta che le vedove del defunto principe caddero repentinamente in disgrazia. Allevate per diventare spose sottomesse al marito, si rassegnarono e si ritirarono tra le mura del palazzo, impotenti, tremanti all’idea di essere a loro volta vittime della magia. E tuttavia gioivano all’idea di ritrovare ben presto, nell’aldilà, colui che avevano giurato di accompagnare oltre la morte. Ma quando il re le privò categoricamente del diritto di accarezzare il volto dell’amato sposo, di lavarlo e vestirlo per un ultimo omaggio terreno, di piangere sulle sue spoglie e offrirgli una sepoltura degna del suo rango, in quelle giovani donne nel fiore degli anni iniziò a montare una collera sorda. Dopo essersi viste negata la speranza di una felicità postuma, i loro occhi si tinsero del rosso e del nero della ribellione. Avrebbero resistito, prendendo in mano la propria sorte, mancava solo una scintilla per accendere il fuoco della determinazione.

© Actes Sud, 2018
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