Maria Elisabetta Coppola è nata a Itapetinga, nell’est del Brasile, nel 1994, e pochi mesi dopo la sua nascita è stata adottata da una coppia di Milano. Studia Scienze dell’educazione in Bicocca e gioca a calcio da quando aveva dieci anni, ora nel Settimo Vighignolo, squadra della serie D.

Come ha iniziato a giocare a calcio?

«Quando ero bambina ho fatto danza classica per sei mesi, per poi capire che non era il mio sport. Dopo ho fatto un po’ di pallavolo, ma anche quello non mi dava grande soddisfazione. Al calcio ci sono arrivata intorno ai dieci anni, se non ricordo male. Mio fratello giocava già: aveva un torneo in Spagna e io ero con lui al ritiro. Il suo allenatore mi ha visto giocare con i suoi compagni e mi ha chiesto di giocare con loro».

Era una squadra mista?

No, era una squadra maschile. Ero l’unica femmina in tutta la società. Mi cambiavo in uno spogliatoio a parte e mancava quell’aspetto, lo spogliatoio dopo le partite. Per il resto, devo dire che mi hanno sempre fatto sentire in squadra. Erano più gli altri a pensare che, dal momento che avevamo una femmina in squadra, eravamo scarsi. Poi vincevamo, e la cosa cambiava.

Quando ha iniziato a giocare in una squadra femminile?

«Avevo tredici anni, avrei comunque dovuto smettere di giocare con loro perché raggiunta una certa età non si può più. Sono stata fortunata perché a una partita è venuto un osservatore, la sua squadra all’epoca si chiamava ancora Le Azzurre, oggi è la femminile dell’Inter. Mi ha proposto di entrare in squadra con loro e sono rimasta cinque, sei anni».

Qual è il suo ruolo?

«Centrocampista centrale. E c’erano altre candidate a quel ruolo. La scelta dipende dal Mister. A parte i piedi buoni, la centrocampista deve avere una buona visione di gioco, devi essere svelta a prendere una decisione – stoppo la palla o la passo? La lancio lunga o la appoggio dietro? Sono cose che vengono col tempo, giocando e conoscendo le compagne, sapendo chi è veloce a riesce a prenderla anche se la lanci lunga. È un insieme di cose che fa una buona centrocampista. Oltre ai polmoni, perché la riserva d’aria è importante. Io sono più tecnica e meno veloce e c’era una mia compagna che invece era proprio veloce, era ovunque».

Ma non è bastato.

Esatto (sorride, ndr), perché la velocità nel calcio non basta. Non essendo velocissima, ho puntato su altro. Sto nel centro, smisto, guardo il gioco.

C’è una qualche differenza tra il calcio femminile e il calcio maschile? Ha mai sentito su di sé il pregiudizio?

«La cosa che ho notato io, sia nel professionismo che non, è che, per dire, quando ti fanno fallo, nessuna sta lì a rotolarsi: ti alzi e ricominci a giocare. Dal punto di vista del gioco, direi che differenze non ce ne sono. Il calcio è calcio, la base è la stessa: fare goal, essere bravi coi piedi. In campo non ho mai avuto un’esperienza diretta dei pregiudizi sul calcio femminile. Anche se per curiosità mia vado a leggere quello che scrivono sui social, che spesso sono luoghi comuni non supportati da nulla, scritti da persone che magari una partita non l’hanno neanche mai vista. Si fa ancora fatica, quello sì. Però siamo sulla strada giusta: vedo che anche le società ci credono e in Italia giocano atlete come Sara Gama».

Come calciatrice di origine brasiliana e nera, le è capitato di subire atti di razzismo in campo?

Mi è capitato una volta sola e ho fatto finta di niente, perché durante la partita non ho voluto dargli peso. Durante un’azione di gioco, l’avversaria dietro ha detto qualcosa tipo “Africana, tornatene al tuo Paese”. Finita la partita, le mie compagne mi hanno chiesto se avessi sentito quello che mi aveva detto. Io lo avevo sentito, ma quella volta mi sono detta che volevo giocare, giocare e basta.

Qual è il suo mito calcistico?

«Sono interista, quindi un posto speciale nel cuore per me ce l’ha Zanetti. Come calciatore, vedere giocare Ronaldinho mi emozionava. Come centrocampista, ho scoperto recentemente Thaisa Moreno, anche lei brasiliana. Ma ho escluso il professionismo, non mi piace l’idea che il calcio diventi per me un lavoro».

Ha citato due atleti brasiliani, è mai tornata in Brasile?

«No, ma è una tappa che ho in programma: l’ho sempre visto non come un viaggio di piacere, se torno in Brasile è perché sono pronta per farlo e soprattutto vorrei farlo da sola. Sono in Italia praticamente da sempre, perché sono stata adottata quando avevo pochi mesi. E i miei genitori hanno sempre cercato, per quello che potevano, di farci capire da dove venivamo. Per molti anni ho accantonato il pensiero delle mie origini, poi due o tre anni fa ho iniziato seriamente a farmi delle domande e diciamo che ci sto ancora lavorando. All’università ho seguito il corso di Pedagogia interculturale e ho scoperto che, per legge, le maestre possono fare dei percorsi interculturali, se hanno dei bambini stranieri in classe, per far loro conoscere le origini e il loro Paese».

Quando andava a scuola lei, le è stata data questa possibilità?

«Nonostante fossero i primi anni Duemila, non ho vissuto niente di tutto questo, e devo dire che conoscere meglio il mio Paese mi sarebbe piaciuto quando ero un po’ più piccola. Comunque è vero che sono nata in Brasile, e ho anche la cittadinanza brasiliana, ma sono italiana, sono cresciuta qui. Posso dire che mi sento brasiliana, ma nel cuore, di fatto sono italiana».

Foto: @Mauro Fragascio