Ivano Dionigi
Parole che allungano la vita
Pensieri per il nostro tempo

prefazione di Gianfranco Ravasi
2020 Raffaello Cortina Editore
pagine 112 euro 12

Ci sono davvero parole che allungano la nostra vita. Parole su cui ancora ci si interroga oggi. Ma i cui insegnamenti ci arrivano da lontano. Da Virgilio a Lucrezio, da Seneca ad Agostino. «Porgere la mano al naufrago», ammoniva Lucio Anneo Seneca. Un invito che fa discutere e su cui ci si divide con ferocia secoli dopo. Le parole diventano così anche un’arma, usata spesso male e a sproposito. A guidarci nei meandri delle parole è il professor Ivano Dionigi, latinista, già Magnifico Rettore dell’Università di Bologna e presidente della Pontificia Accademia di Latinità. Quello che ne esce è una guida che ci aiuta a scoprire la nostra identità e il futuro. Alla ricerca di una risposta, come ricorda monsignor Gianfranco Ravasi nella prefazione di cui pubblichiamo un estratto, alla domanda di Agostino “Tu chi sei?”. Alla fine ciò che conta sono il futuro in cui ci avventuriamo come ciechi e l’identità, la nostra identità. Incapaci di affermarla attraverso la parola, cerchiamo di immortalarla almeno in un selfie. L’ultima invenzione tecnologica per sopperire alla nostra mancanza di parole. Fabio Poletti 

Per gentile concessione dell’autore Ivano Dionigi e dell’editore Raffaello Cortina pubblichiamo un estratto della prefazione di monsignor Gianfranco Ravasi al libro Le parole che allungano la vita.

In questo procedere a più livelli noi non siamo i primi ad avanzare, altri ci hanno preceduto. È così che il nostro autore introduce un altro tema a lui caro, la “tradizione”, che è efficacemente rappresentata in un gioco lessicale suggestivo e trasparente, retto dalla legge dell’inclusivo, armonico e coerente et et, contro l’esclusivo, aggressivo e separante aut aut. Detto in altro modo, il notum dei padri e dei maestri deve intrecciarsi con il novum dei figli e dei discepoli. Il classico, che non è una fredda eredità cristallizzata ma un seme fertile (“è ciò che ancora ha da essere”, come ammoniva Osip Mandel’štam), deve coniugarsi con la modernità. È un esercizio “simbolico” che Ivano Dionigi in un passo emblematico della sua raccolta presenta attraverso due voci inattese, tra loro distanti, eppure concordi, Petrarca e Steve Jobs, il fondatore di Apple.
È solo in questa luce che si possono accostare due triadi scandite dalla vocale i, senza che la prima prevarichi sulla seconda, come purtroppo spesso accade: da un lato, inglese, internet, impresa; dall’altro, intelligere, interrogare, invenire. Due trilogie non sovrapponibili ma necessarie secondo diverse gradazioni o finalità, funzionale la prima, essenziale la seconda. Solo così si riesce a vivere in pienezza il proprio tempo, “la cosa più preziosa di tutte”, come affermava Seneca. Solo così si intuisce nel chrónos, ossia nella mera scansione cronologica, fatta di una nomenclatura fenomenica di minuti e ore, di atti e di eventi, il kairós, che è l’attimo perfetto, vissuto con mente e cuore, “atomo” indivisibile, anche se si estende e feconda il fluire della nostra esistenza.
In questa fedeltà al tempo, che è la filigrana della tradizione, si scopre il valore della storia, con il suo carico di dati gloriosi e sconvolgenti. Le riflessioni che seguiranno non decollano dalla quotidianità con il suo impasto di splendori e miserie, ma sono ancorate al presente. Si leggano i frammenti appassionati riservati all’attuale tema lacerante degli stranieri migranti. Le voci evocate sono impressionanti perché mai si ipotizzerebbe l’identità del loro autore. Per esempio: “In pochi qui, alle vostre spiagge arrivammo a nuoto. Che razza di uomini è mai questa? Quale patria permette un uso così barbaro? Ci negano l’asilo della sabbia, ci fanno guerra, ci vietano di soggiornare sulla riva”. A protestare così non è un migrante odierno o un operatore sociale, ma Virgilio nell’Eneide.
Oppure è Seneca a ricordarci, con un linguaggio quasi biblico, che essere persona umana vera si dimostra nel “porgere la mano al naufrago, indicare la via a chi è smarrito, dividere il pane con l’affamato”. E alla fine tocca a Kavafis, il grande poeta greco moderno, registrare un fenomeno che certi politici odierni vogliono ignorare, avvolti negli stereotipi della loro propaganda: “S’è fatta notte, e i barbari non sono venuti […]. E adesso, senza barbari, cosa sarà di noi? Era una soluzione, quella gente”. Tuttavia, nelle riflessioni che seguiranno, l’umanità sensibile e la fede cristiana spingono Dionigi a non fermarsi a queste contingenze storiche, ma a entrare anche nei grovigli degli interrogativi esistenziali fondamentali.
Così egli non si sottrae alle domande scandalose, vere pietre d’inciampo non solo per il credente, come il dolore innocente, affidandosi all’accusa veemente di Ivan, l’ateo dei Fratelli Karamazov di Dostoevskij. Il suo cristianesimo lo conduce fino alla croce di Cristo ove appare un Dio patiens, quindi “patetico”, carico del páthos del nostro soffrire e morire, a differenza del dio pagano apathés, “apatico, impassibile”. Entra, allora, in scena anche la morte: “fine o passaggio?”, “altra faccia della vita rispetto a quella rivolta verso di noi”, secondo la certezza di Rilke? O abisso vuoto a cui approda l’estuario della vita? Cerchio che non può chiudersi nella sua perfezione eterna, come era convinto il medico greco Alcmeone, o pellegrinaggio fino alla dimora definitiva, nell’abbraccio con il Dio creatore dalle cui mani siamo usciti?
Temi capitali come la parola, la storia, la vita e la morte e altri ancora si annodano dunque in queste poche pagine, nitide nello stile, sobrie nel dettato, profonde nel pensiero. In tempi di linguaggi muscolari, queste righe optano per l’armonia del tono minore, che in realtà è più forte e incisivo dell’enfasi. In apertura abbiamo ricordato che ogni libro serio nasce da due protagonisti, l’Autore e il Lettore: il primo lascia spazi bianchi all’altro perché costui faccia fiorire ulteriormente le sue parole e le sue intuizioni. Perché questo accada, è necessario un alone di silenzio e di meditazione.
È ciò che suggeriamo ai lettori della raccolta di pensieri che è ora tra le loro mani, affidandoci alle parole di un amico caro a Ivano e a chi ha scritto questa premessa: “Non si può trovare Dio nel rumore. Dio si palesa solo nel silenzio. Dio non è mai nei mass media, Dio non è mai sulle prime pagine dei giornali, Dio non è mai in tv, Dio non è mai a Broadway”.

© 2020 Raffaello Cortina Editore

Per gentile concessione dell’autore Ivano Dionigi e dell’editore Raffaello Cortina pubblichiamo un estratto del libro Parole che allungano la vita.

Lo straniero

Pura invenzione la corrispondenza epistolare di Seneca con san Paolo, indimostrata la sua conversione al cristianesimo, incomprensibile la qualifica di santo attribuitagli da san Girolamo. Al contrario, le severe testimonianze degli storici ritraggono un uomo avido di averi e di potere, non alieno dal praticare l’usura, al punto che Agostino ne fa un campione di incoerenza (La città di Dio, 6, 10). Eppure il filosofo di Cordova – che per primo, nel dialogo La vita felice, rilevava il divario tra la propria vita e la propria dottrina, e che pertanto invitava a seguire non i suoi esempi ma i suoi precetti – ha formulato insegnamenti di rara umanità e nobiltà, soprattutto in riferimento allo straniero. Partendo dal principio che ogni uomo è “cittadino del mondo”, alla domanda “come dobbiamo comportarci con gli uomini?” (Lettera 95, 51), Seneca prescrive queste linee di comportamento: “porgere la mano al naufrago [naufrago manum porrigere], indicare la via a chi è smarrito [erranti viam monstrare], dividere il pane con l’affamato [cum esuriente panem suum dividere]”. Di fronte a questo triplice precetto enunciato da un pagano, ma di evidente consonanza evangelica, dovrebbero riflettere e arrossire quei cattolici che, fedeli alla messa domenicale, non si fanno alcuno scrupolo di mostrare sia in pubblico sia in privato insofferenza e ostilità verso gli immigrati.

© 2020 Raffaello Cortina Editore