Ogni persona che incontri sta combattendo una battaglia di cui non sai nulla. Sii gentile. Sempre.
Si tende sempre a pensare che lo straniero che viene in Italia, sia una persona che, a casa sua, aveva gli svarioni. Che tutti gli stranieri provenienti da paesi extracomunitari (del Terzo mondo) siano senza cultura, educazione, preparazione. Che siano immorali, lavativi, che vogliano un cellulare ultimo modello e abiti griffati. Stereotipi dal primo all’ultimo punto.
L’essere umano preferisce stare a casa propria, con i propri amici, affetti e punti di riferimento. Nessuno riesce facilmente a lasciare tutto e andare via. Siamo comunque animali e ci riconosciamo nel branco. Perdere la comunità, il rispetto, la propria cultura è una mutilazione fisica. Ritrovarsi all’improvviso in un ambiente sconosciuto, e spesso ostile, è come essere in un labirinto senza poter chiedere informazioni per un codice di comunicazione e di interazione completamente differente.
Le persone che scappano rappresentano una percentuale infinitesimale della popolazione del loro Paese di provenienza. Le persone, prima di decidere di scappare, si difendono, difendono i loro cari, i loro affetti, la loro casa, il loro Paese. Ma la povertà non permette loro di avere gli strumenti adeguati per farlo e vengono quindi oppressi, torturati, seviziati, stuprati fisicamente e psicologicamente prima di essere ammazzati.
I loro Paesi di origine sono spesso Paesi dove la democrazia è inesistente o di facciata. Dove i processi di democratizzazione (non quelli imposti dall’Occidente a suon di bombe intelligenti) sono drammatici e sanguinosi. Dove la corruzione crea solchi sempre più ampi e profondi tra ricchi e poveri. E dove i poveri trovano – quando questo è possibile – nella cultura, nei libri e nell’istruzione, l’unica arma per sopravvivere all’assenza totale di una speranza. La sola speranza che domani sarà forse meglio di oggi è un’utopia.
Esistono però anche Paesi dove la società civile è più strutturata, dove la politica è sempre all’ordine del giorno. Paesi nati dopo le guerre di liberazione come l’Algeria dove sono nata, cresciuta, dove ho studiato, mi sono laureata in Ingegneria, dove ho avuto la mia formazione politica e culturale, dove ho mosso i primi passi in politica attiva, i primi scioperi, le prime battaglie, le ribellioni. I primi amori.
Sono nata in un Paese dove nessuno moriva di fame, dove l’accesso all’istruzione era gratuito e garantito fino all’università. Con un solo canale televisivo controllato dallo stato, pochi giornali statali. I dissidenti, gli artisti impegnati, gli studenti e professori ribelli, l’intelligencija venivano arrestati, torturati e spesso fatti sparire. Avevamo la pancia piena e la bocca chiusa. Ma avevamo la consapevolezza di chi ha studiato, di chi conosce i propri diritti, le armi da usare per l’autodeterminazione. Una consapevolezza sempre più forte, quella dell’amore per il proprio Paese, per la sorte dei cittadini, per la libertà, che ci ha spinti ad iniziare una battaglia per un processo di democratizzazione e di multipartitismo.
Il multipartitismo ha permesso anche al partito islamista jihadista di venire a galla dalle tenebre. Un’onda oscurantista e totalitaria che si nutriva, come una carogna, della carne del tessuto sociale devastato e privo di ogni speranza per il futuro, perché distrutto dalla corruzione e dalle ingiustizie. L’onda del male travolge il Paese in una guerra civile di dieci anni: “il decennio nero”. Lo distrugge, sbriciola psicologicamente la spensieratezza, la routine. Mette in pericolo i pochi, pochissimi diritti strappati con il sangue e la costante lotta. Il diritto delle donne, la libertà di espressione, libertà di pensiero. Tutto era in pericolo. E la società civile che aveva già lottato per il processo di apertura, si è riorganizzata per lottare contro l’integralismo malvagio e oscuro. Una guerra civile che fa 200.000 morti: uno per famiglia. La guerra civile crea paura. Una paura che striscia sulla pelle e sottopelle. Porta le persone a salutarsi la mattina, prima di andare a lavorare o a studiare, come se fosse un quotidiano e straziante ultimo addio perché si poteva morire due minuti dopo saltando per aria sull’autobus o con tre pallottole sparate nel cuore. Come è successo a mio padre.
Mio padre aveva contribuito alla mia formazione politica, alla costruzione dei miei valori progressisti sui principi dei diritti umani, alla costruzione della mia coscienza. Inculcava nella mente di chi lo circondava il valore della giustizia, combattere l’omertà e difendere i diritti di tutti. Muore così durante lo svolgimento della sua funzione di portatore sano di diritti umani. Muore per aver difeso tutti. Muore perché aveva scelto di combattere e di non tacere mai per non essere complice. Muore per essersi sempre schierato accanto alle donne, agli omosessuali, ai laici, alla libertà di culto. Muore per non aver avuto paura di esprimere le sue idee rivoluzionarie in un periodo storico medievale che imponeva diktat pseudo-religiosi. Muore. E viene sepolto con gli onori dei cittadini. Ma muore mio padre.
Io mi trovavo in Italia da due anni. Avevo appena terminato i due master in economia come borsista. Le tre pallottole hanno colpito anche me e hanno, totalmente e irreversibilmente, cambiato la mia vita, la mia psiche. Non aver potuto accompagnare mio padre alla morte, come deve avvenire nella vita normale, ha creato un vuoto improvviso in cui sono collassata senza mai più tornare a quella che ero prima. Una lacerazione sempre aperta e che sanguina ogni qualvolta che sento il pericolo di una deriva totalitaria, ogni qualvolta che uno tace davanti ad un’ingiustizia o alla negazione di un diritto. Ogni qualvolta che sono di fronte all’intolleranza.
Faccio di questa ferita un valore di cui mi vesto come una seconda pelle e che porto ovunque. Un valore che metto a disposizione di quello che è diventato il mio Paese. L’Italia mi ha permesso di vivere il mio lutto in pace, di esprimere i miei valori, le mie idee, le mie opinioni politiche e anche la mia personalità. Mi ha ridato la libertà di sognare una vita normale. Una vita fatta di lavoro, di una casa, di una famiglia.
Ecco perché lo stereotipo dello straniero che viene in Italia e che non ha fatto nulla a casa sua prima, è profondamente sbagliato. Sono storie di lotte, di guerre, di morte e di disperazione e rappresentano una percentuale minuscola delle popolazioni rimaste lì a combattere contro tutto. Fino alla morte. Sotto gli occhi chiusi di tutto l’Occidente.
È chiaro quindi che i temi “comunità straniera regolare” e “richiedenti asilo” siano da trattare separatamente, perché sono due fenomeni totalmente diversi. Mettere in condizione di condurre una vita normale gli immigrati regolari venuti in Italia per lavorare o studiare, onesti e feriti nell’animo, accompagnarli in un processo di integrazione in un contesto urbano de-ghettizzato, concepire delle città che permettono l’inter-scambio culturale, aiutare i loro figli a sentirsi parte della società, rispettare la loro diversità nel pieno rispetto delle leggi e regole italiane, possono essere la via per non perdere questa straordinaria occasione di rendere la nostra società ricca e con un’energia propulsiva verso la modernità.