In un mondo che ci appare sempre più globale, dove i confini sembrano dettati solo dal non avere una lingua comune, c’è ancora chi crede che siamo una tribù e chiunque venga da fuori sia un diverso e dunque potenzialmente un nemico. Maurizio Bettini, docente di Filologia Classica all’Università di Siena, direttore della collana Antropologia del mondo antico per Il Mulino, con questo Hai sbagliato foresta edito dalla stessa casa editrice, mette a nudo e analizza le nostre paure più nascoste verso “i diversi”, che siano migranti oppure rom. Il suo è un viaggio attraverso il concetto di identità, anche nelle sue varianti più retrive, tra chi crede che ci sia ancora un bosco da difendere. Uno sguardo sull’oggi tenendo ben presente i rischi a cui ci può portare questa deriva: «Il giorno in cui in Italia tornassimo sotto un regime di esclusione, non solo dei diversi perché di etnia o di cultura altra, ma dei diversi perché di opinioni, abitudini, costumi sessuali o familiari che non corrispondono a quelli dominanti, qualche ragazzo vittima di esclusione ci chiederà: ma voi dov’eravate, cosa facevate, quando tutto questo stava nascendo?». Fabio Poletti
Maurizio Bettini
Hai sbagliato foresta
Il furore dell’identità
2020 Il Mulino
pagine 176 euro 14
Per gentile concessione dell’autore Maurizio Bettino e dell’editore Il Mulino pubblichiamo un estratto del libro Hai sbagliato foresta.
«La rivoluzione è una festa» recitava un fortunato slogan del ’68. Non era vero, naturalmente, la rivoluzione non è mai stata una festa e non potrebbe esserlo in alcun modo. Allo stesso modo neppure l’immigrazione è una festa, come vorrebbe certa retorica giuliva del «gioioso incontro di culture». L’immigrazione genera difficoltà, impossibile negarlo, suscita problemi di convivenza, di integrazione, di lingua, di spazi, anche di memoria, quando interi quartieri perdono i loro abitanti originari per essere sostituiti da nuovi venuti che portano usi, costumi ed esercizi commerciali differenti. Ne sanno qualcosa tutti quegli amministratori, politici e pubblici funzionari, che si trovano quotidianamente ad affrontare conflitti e disagi causati dall’arrivo di immigrati, specie al momento del loro primo ingresso sul suolo del nostro paese. Nascondersi le difficoltà create dall’immigrazione – facendo genericamente appello a sentimenti di umanità o ai principi del diritto internazionale – o meglio scotomizzarle, avvolgendole nel velo della reticenza e del perbenismo, non solo non aiuta ad affrontarle, ma non è giusto nei confronti di coloro che dell’immigrazione subiscono le conseguenze. Certo, sappiamo anche che l’avvento del nuovo costituisce da sempre l’alimento indispensabile affinché la cultura di una data comunità si modifichi e si sviluppi. Su questo dovremo anzi ritornare diffusamente più avanti. Di conseguenza gestire al meglio l’ingresso di nuovi abitanti nel nostro paese, è necessario non solo dal punto di vista morale, sociale ed economico, ma anche da quello dello sviluppo culturale perché, da che mondo è mondo, le società umane si sono sempre alimentate di mescolanza, non di purezza. Non esiste cultura che possa far a meno dell’interazione con coloro che hanno «sbagliato foresta», anzi, per fortuna che lo hanno fatto. Ciò non significa però che queste iniezioni di «novità» nel tessuto nazionale, specie quando sono massicce e introducono elementi particolarmente lontani dalla cultura condivisa, debbano essere indolori. In molti casi non lo sono e soprattutto, aspetto assai importante della questione, non sono percepite come tali.
Dunque l’immigrazione non è una festa, come abbiamo detto. Però non è neppure quell’incubo in cui vorrebbero farci vivere alcuni politici, chierici e armigeri del sovranismo, ossessionati dal bisogno di stringere la tenaglia dell’identità. L’Italia è un paese governato da istituzioni democratiche, che può affrontare i problemi posti dai flussi migratori ispirandosi in primo luogo alla nostra carta costituzionale, così come alla dichiarazione universale dei diritti umani, alle altre che ad essa sono seguite e alle norme del diritto internazionale. Non dimentichiamo soprattutto che alle nostre spalle sta una tradizione millenaria animata da principi elementari di «umanità», come porgere la mano al naufrago o dare ospitalità al profugo. Come dice Nausicaa a Odisseo «vengono tutti da Zeus gli ospiti e i mendicanti»; mentre Ilioneo, il troiano che ha fatto naufragio sulle coste dell’antica Libia, definisce «barbara» la terra che «nega accoglienza alla riva» e «scaccia dal lido» chi vi ha trovato scampo dalle onde. E se anche chierici, politici e armigeri del sovranismo tendono a ignorare questi principi, come purtroppo tante volte si è visto, o peggio ancora a scrollarseli di
dosso come capricci da “buonisti”, questo non impedisce che essi continuino a far parte del sostrato comune della nostra cultura e come tali possano e debbano ancora guidare le nostre decisioni.
L’Italia insomma non è una «foresta» circondata da nemici contro i quali esercitare il diritto di legittima difesa. Per la verità simili rappresentazioni del fenomeno migratorio, che a una mente equilibrata paiono solo caricature ispirate da fanatismo o da una cinica opportunità elettorale, verrebbe solo voglia di ignorarle. Ma sarebbe un errore. Ci sono, circolano, si diffondono lungo gli infiniti cammini della «mediosfera» da cui siamo circondati, agiscono sulla percezione della realtà da parte di molte persone – fino al punto da spingere dei ragazzi ad aggredire un nero per strada o a sputargli addosso, come talora è avvenuto. Rivelando così che lo «schifo» suscitato dagli immigrati nei chierici e negli armigeri del sovranismo (come di seguito vedremo) in realtà non è affatto una metafora. Ragion per cui ignorare simili grottesche, eppure drammatiche, deformazioni del fenomeno migratorio, è semplicemente impossibile.
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