Premio Nobel per la Pace al premier etiopico Abiy Ahmed. Torna attuale l’intervento che Valentina Fusari, docente di Popolazione, sviluppo e migrazioni all’università di Pavia, aveva scritto per noi nel luglio 2018 per spiegare le conseguenze dell’accordo di pace tra i due Paesi.

Il processo di pace fra Eritrea ed Etiopia, avviato dal Primo ministro etiopico Abiy Ahmed e dal Presidente eritreo Isaias Afewerki, è stato ben accolto dalle potenze regionali e globali, tra cui le Nazioni Unite (pronte a rimuovere le sanzioni contro l’Eritrea), l’Unione Europea, l’Unione Africana, gli Stati Uniti, gli Emirati Arabi Uniti e l’Arabia Saudita.

Ma il principale entusiasmo si riscontra nella popolazione di entrambe le nazioni, che condivide rapporti di sangue e spera in una normalizzazione dei rapporti, in grado di portare un reale miglioramento in ambito politico, economico, sociale, culturale e securitario, grazie all’avvio di relazioni diplomatiche, commerciali, di trasporto e comunicazione.

Il nuovo corso degli eventi dovrà superare dissensi, ad esempio da parte del Tigrayan People’s Liberation Front (TPLF) e di alcuni ambienti della diaspora eritrea, e scetticismi, soprattutto all’interno della popolazione eritrea, che vorrebbe uno stato costituzionale, che tuteli i propri cittadini e non sia causa di emorragia della popolazione in età (ri)produttiva.

L’attuale situazione può essere il prisma attraverso cui leggere le dinamiche migratorie che hanno caratterizzato l’Eritrea e fare alcune speculazioni sugli scenari futuri. Purtroppo le interpretazioni mediaticamente più diffuse difficilmente tengono in conto il contesto socio-demografico del Paese di origine, nascondendo verità dietro percentuali e valori assoluti, che però perdono significato se disancorate dalle cause che determinano i modelli migratori dei Paesi di origine. Inoltre, la libertà di movimento non è equamente distribuita a livello globale, ma è soggetta a rapporti di potere sbilanciati: se da un lato i mezzi di trasporto hanno accorciato le distanze, dall’altro sono intervenuti confini, visti di uscita e ingresso, passaporti e permessi di soggiorno a regolare e ostacolare la mobilità e la possibilità di stabilirsi in un Paese diverso dal proprio.

La mobilità è un elemento strutturale della società eritrea, poiché diversi fattori nel tempo si sono sovrapposti e hanno creato una selezione che, oltre a modificare la società di partenza, ha contribuito a fornire una spiegazione spesso aneddotica e stereotipata nei Paesi di accoglienza, basata sulle storie di vita dei migranti, difficilmente comprovabili attraverso ricerche sul campo.

È quindi interessante comprendere come questa svolta storica possa impattare sulla mobilità della popolazione eritrea, la cui cultura migratoria ha radici nei movimenti regionali e nella lotta per l’indipendenza (1961-1991), ma raggiunge l’apice nel ventunesimo secolo. I dati dell’UNHCR (Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati, ndr), infatti, suggeriscono che la popolazione rifugiata eritrea fosse maggiore negli anni ’90 del secolo scorso, ma vivesse prevalentemente entro i confini nazionali, mentre i richiedenti asilo e i rifugiati all’estero aumentano costantemente a partire dall’ultimo conflitto con l’Etiopia (1998-2000). In realtà, un’analisi più accurata impone di non vendere nel conflitto di per sé la causa principale della migrazione forzata, ma di indagare i dispositivi di controllo messi in atto dal governo eritreo, che hanno portato circa il 15% della popolazione a chiedere protezione all’estero nell’ultimo decennio, tanto che dal 2015 gli eritrei rappresentano per numero la terza nazionalità ad entrare in Europa via mare (partendo da una popolazione di poco superiore ai 3 milioni), registrandosi quinti nel giugno 2018 per numero di arrivi in Italia attraverso la rotta del Mediterraneo centrale.

Fin dal 1994, quando è stato introdotto il national service, che impone agli eritrei adulti di ambo i sessi sei mesi di formazione militare e dodici di servizio civile, al fine di creare un’identità nazionale coesa e rilanciare il Paese, la coscrizione veniva giustificata con la minaccia etiopica, che divenne realtà con la guerra di confine, cui seguì (nel 2004) l’introduzione della Warsay Yekeallo Development Campaign (WYDC), che rappresenta la continuazione del national service, mobilitando a tempo indeterminato la popolazione in progetti volti alla ricostruzione socio-economica del Paese, divenendo il reale motivo della frustrazione delle giovani generazioni che non vedono possibilità di autorealizzazione in patria. Accanto a queste istituzioni, vanno sottolineati anche i costi e le difficoltà di ottenere sia il passaporto, che può essere richiesto una volta smobilitati, sia il visto di uscita per poter lasciare legalmente il Paese.

Queste sono quindi le cause che spingono alla migrazione forzata come unica via d’uscita: infatti, proprio in occasione dell’introduzione della WYDC, si nota un innalzamento dei flussi, delle richieste e dell’ottenimento di asilo politico all’estero (pari al 93% nel 2016), che non accenna a diminuire neppure nell’ultimo quinquennio, quando il sistema di controllo sembra essersi allentato.

Anzi, nell’ultimo decennio i rifugiati eritrei sono più che raddoppiati, continuando a indicare la coscrizione obbligatoria e indefinita, insieme alle conseguenze su di sé o sui propri familiari in caso di diserzione o di dissidenza, come principale motivo di fuga dal Paese.

La stabilità in Africa orientale consentirebbe all’Etiopia, che ospita il maggior numero di rifugiati eritrei oltre alla propria popolazione (stimata oltre 100 milioni), di trainare l’economia e promuovere l’interconnessione nell’intera regione. In questo modo l’Eritrea potrebbe rivitalizzare la propria economia, soprattutto nell’area di confine finora depauperata dalla presenza militare etiopica, incentivando investimenti, anche attraverso partner internazionali interessati, come l’Unione Europea, a limitare i flussi migratori agendo sui Paesi di origine.

Inoltre, la fine dell’occupazione dei territori sovrani eritrei da parte etiopica consentirebbe di rimuovere il principale ostacolo all’adempimento degli obblighi nazionali e internazionali nella promozione e protezione dei diritti umani e delle libertà fondamentali, ma al contempo potrebbe trasformare la natura e gli esiti dei flussi migratori in uscita.

L’establishment è conscio delle aspettative della popolazione – quali smobilitazione, allentamento del controllo, miglioramento economico e riforme politiche -, auspicate anche dalla diaspora che finora ha supportato l’economia nazionale sia attraverso la tassa del 2% che gli eritrei residenti all’estero sarebbero tenuti a pagare sia attraverso le rimesse ai familiari.

Tuttavia, nonostante i reali benefici che l’Eritrea potrebbe avere, come le entrate derivanti dall’utilizzo dei porti nazionali per il commercio etiopico e il potenziale sfruttamento dei giacimenti di potassio al confine tra i due Paesi, la smobilitazione dei coscritti e la liberazione di prigionieri politici potrebbe mettere in crisi il mercato del lavoro locale, non in grado di assorbire la manodopera, generando un innalzamento della disoccupazione che potrebbe tradursi in nuovi flussi migratori, facilitati anche dall’apertura delle frontiere con l’Etiopia. Stando alle definizioni più comunemente adottate, in tal caso, si finirebbe per parlare di migranti economici, etichetta comunque già spesa anche per i migranti forzati eritrei, ma si tratterebbe comunque di una semplificazione, poiché non è altro che una conseguenza dell’impianto socio-economico finora esistente.

Diversamente, per coloro che hanno ottenuto protezione internazionale all’estero non cambierà nulla, mentre il venir meno di un elemento fondante della richiesta stessa potrebbe far variare i tassi di riconoscimento dello status di rifugiato politico, cui potrebbe seguire un innalzamento della protezione sussidiaria (anche in virtù degli abusi subiti sulla rotta verso l’Europa) o umanitaria, il cui rinnovo potrebbe però essere messo in discussione, favorendo così migrazioni di ritorno, mentre per coloro che sono in una condizione di irregolarità rispetto ai Paesi ospitanti aumenterebbe la vulnerabilità e l’esposizione a rimpatri forzati. Comunque queste trasformazioni dipenderanno in buona parte dalle scelte dell’UNHCR e dalle narrazioni che i migranti forniranno nel tentativo di accedere ad una forma di protezione.

*Università di Pavia

Foto: Unsplash

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