La prima conferenza europea sui migranti è del secolo scorso, prima ancora che scoppiasse la Seconda Guerra Mondiale. Da allora è cambiato poco. I migranti sono sempre rappresentati come un problema. Contenerli, impedirne gli sbarchi o l’arrivo nel Vecchio Continente, è la parola quotidiana di un sistema politico corale che su un tema come questo misura la propria, i propri limiti e una incapacità totale. La giornalista e scrittrice olandese Linda Polman ha una lunga esperienza sul campo, avendo partecipato alle missioni di peacekeeping in Somalia, Haiti e Ruanda. In questo libro – Gente di nessuno, pubblicato da Luiss University Press – l’autrice racconta il fenomeno migratorio dai due lati della medaglia. Di chi scappa da guerre, persecuzioni, carestie e fame e da chi, qui in Europa, dietro un sistema di leggi «umanitarie» cerca di impedire gli arrivi e con una immutata logica da scaricabarile, impedisce che i migranti finiscano nel proprio territorio, al di là di tante belle parole dei Paesi europei che compongono l’unione. Dovrebbe far riflettere che nel 1938, l’anno della prima conferenza internazionale sulla crisi dei rifugiati in Europa, convocata da Roosevelt nella cittadina francese di Évian, al centro della conferenza erano gli ebrei in fuga dalla Germania nazista, in gravissimo pericolo dopo l’Anschluss dell’Austria, l’annessione dell’altro Paese tedescofono voluta da Adolf Hitler. Il verbale conclusivo di quella conferenza, scrive Linda Polman in questo libro «potrebbe benissimo essere stato scritto ottant’anni dopo, al giorno d’oggi insomma. Il filo conduttore della riunione fu: non nel mio giardino». Fabio Poletti

Linda Polman
Gente di nessuno
Rifugiati e migranti in Europa dal 1938 a oggi
Traduzione di Olga Amagliani
2020 Luiss University Press
pagine 272 euro 20

Per gentile concessione dell’autrice Linda Polman e dell’editore Luiss University Press pubblichiamo un estratto del libro Gente di nessuno.

Una volta morto Gheddafi, anche Sarkozy perse ogni interesse per l’intervento. Le domande su chi avrebbe pagato la ricostruzione della Libia e chi avrebbe disarmato i ribelli e dato loro dei posti di lavoro non ebbero risposta prima dell’intervento o non furono nemmeno poste. La NATO se ne andò e la Libia fu lasciata al suo destino. La colpa è dei libici, disse il premier Cameron alla commissione d’inchiesta: noi abbiamo dato loro un’occasione di diventare una democrazia e loro non l’hanno colta.
La Libia non fece niente e l’Unione Europea nemmeno. Per i loro patti anti-immigrazione, da quel momento in poi i Paesi europei ebbero a che fare, invece che con il solo Gheddafi, con un governo sabotato internamente da amministrazioni alternative e con centinaia di milizie e “brigate” libiche, inaffidabili, astute e spietate. Leali non verso lo Stato, ma verso città e tribù che si fanno una guerra all’ultimo sangue. Bruxelles “avviò il dialogo” con varie milizie e incaricò l’OIM di implementare nei loro territori una gamma di programmi anti-immigrazione e di Ritorno volontario assistito (AVR). Non è chiaro quanto fosse “volontario” quel ritorno, ma il fatto che un rappresentante del governo libico abbia detto a una squadra UNHCR che la detenzione è “il bastone con cui spingiamo la gente verso l’AVR” non è rassicurante. Per l’UE nessun prezzo è troppo alto quando si tratta di tenere lontani i migranti, ha segnalato Amnesty International nel 2016.
Ai tempi di Gheddafi, dall’albergo sulla spiaggia di Sabrata, in Libia, si poteva fare un’escursione alle rovine romane, patrimonio UNESCO. Dopo l’intervento militare, la spiaggia di Sabrata è diventata uno dei principali punti di partenza delle barche verso l’Europa. A procurare i passeggeri pensava il caposquadra Mohamed Koshlaf, direttore del “centro di detenzione per migranti” locale, un lurido tugurio dove la gente veniva rinchiusa fino al momento di imbarcarsi. Chi non aveva abbastanza soldi per pagarsi il viaggio veniva giustiziato, picchiato, ridotto alla fame o venduto come schiavo.
Il socio d’affari di Koshlaf era Al Bija, il comandante della guardia costiera in quella zona, a cui tutti i trafficanti di esseri umani nella regione pagavano una percentuale del guadagno, per evitare che la guardia costiera facesse affondare le imbarcazioni con cui trafficavano, con passeggeri e tutto. O che Al Bija le sequestrasse e le riportasse a Sabrata, dove sparivano nelle prigioni. L’intero corpo della guardia costiera di Al Bija era pagato ed equipaggiato dall’UE, che definisce questo sistema “salvare i migranti” dall’annegamento e dai trafficanti.
Anche il governo della Libia non è un promotore dei diritti umani: chiunque arrivi senza visto è un criminale e viene spedito nei centri di detenzione ufficiali del governo. Si può essere liberati solo in caso di rimpatrio, evacuazione o reinsediamento. O se si viene venduti a famiglie ricche che hanno bisogno di schiavi per le loro aziende agricole o i loro cantieri edili.
Sia la commissione ONU per i diritti umani che la Commissione europea hanno inviato degli osservatori in alcuni di quei centri. Ne sono usciti sconvolti. “Un incubo”, “disgustoso”, “crudele”, “disumano”, “migliaia di donne, bambini e uomini smunti e traumatizzati, ammucchiati uno sull’altro senza accesso neanche ai servizi più elementari e privati della loro dignità umana”, hanno riferito. Hanno constatato una carenza di tutto: luce, cibo, acqua, medicine, persino di ossigeno. La situazione non aveva assolutamente nulla a che vedere con le norme internazionali per l’accoglienza dei rifugiati. Un osservatore UE ha detto che i centri sono “la cosa più vicina ai campi di concentramento che abbiamo nel Ventunesimo secolo”.
Nessuno sa quante persone siano rinchiuse. L’UNHCR stima che siano più di 8000, di cui la metà sono rifugiati riconosciuti dall’organizzazione (2018). Ma quello che proprio nessuno sa è quanti profughi ci siano nei tuguri sparsi qua e là sotto il controllo di milizie, tribù e Stato islamico. Anche alcuni di quei luoghi hanno ricevuto visite da parte degli ispettori. Amnesty International e Human Rights Watch hanno pubblicato dei rapporti sulle condizioni in quei centri. La gente viene maltrattata, abusata sessualmente, torturata con l’elettricità e viene versata loro addosso acqua bollente.
Nell’agosto 2016, MSF comunicò che quasi tutte le persone che loro salvano in mare mostrano segni di estrema violenza nelle carceri libiche: timpani perforati, ustioni, cicatrici, segni di bastonate, ossa rotte. All’epoca l’UE finanziava già ventinove di quei centri di detenzione. Tutti, senza eccezione, sono stati citati nei rapporti sulle violazioni dei diritti umani.
Sulle pagine dei siti web dell’OIM e dell’UNHCR (2018) non viene fatta parola delle violazioni delle leggi sui migranti e sui rifugiati in Libia, mentre si parla dell’“assistenza” che esse forniscono ai gruppetti di migranti intercettati quando vengono fatti sbarcare, come distribuire bottigliette d’acqua e, qualche volta, dare loro un passaggio. Verso un centro di detenzione.

© 2019 Linda Polman, Uitgeverij Jurgen Maas
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