Otto milioni di vittime alla fine dell’Ottocento. Altre migliaia – milioni? – nei decenni a venire, fino ai giorni nostri. Gli hazara, un tempo etnia maggioritaria dell’Afghanistan, discendenti di Gengis Khan e di popoli di origine turca, abitanti delle montagne al centro del Paese, sono vittime non riconosciute del genocidio compiuto da pashtun e talebani, che va avanti ancora oggi. La loro è una storia quasi sconosciuta. Questo del ricercatore Claudio Concas, autore di Voci dall’Hazaristan pubblicato dalla casa editrice MIMESIS, è il primo libro in lingua italiana. Un lavoro frutto di minuziose ricerche andate avanti due anni, mescolando documentazioni storiche inedite e testimonianze recenti di hazara fuggiti all’estero, Pakistan, India ma pure in Europa, figli di una diaspora che con il ritorno al potere a Kabul degli studenti delle scuole coraniche rischia solo di aumentare. Musulmani sciti ma non integralisti, le donne non hanno l’obbligo del velo e nella loro società hanno posti di rilievo, sono da sempre vittime di un furore per il loro sterminio che ha molte analogie con quello di ebrei ed armeni. Il primo a guidare eliminazioni di massa su base etnica fu alla fine dell’Ottocento Abdur Rahman Khan, detto l’Emiro di ferro, di etnia pashtun e dunque sunnita. Alla base dello sterminio non solo la religione, ma il controllo delle terre in una zona di pascoli rigogliosi. Si calcola che allora gli hazara fossero il 65% della popolazione dell’Afghanistan. Oggi non sarebbero oltre il 20%, i talebani giurano anche meno, per concedergli una minore rappresentanza. Il massacro non si è mai fermato, 10 mila hazara vennero uccisi dall’8 agosto 1998 in pochi giorni a Mazar-I-Sharif, come potete leggere nell’estratto che pubblichiamo qui sotto, con modalità che ricordano Josef Mengele ad Auschwitz secondo alcuni ricercatori. L’annientamento delle persone si accompagna al genocidio culturale. In Hazaristan si trovavano le statue dei Buddha di Bamyan distrutte dai Talebani con l’esplosivo nel 2001. Agli hazara, espropriati di ogni bene, non viene concesso nemmeno il libero accesso all’istruzione scolastica. Tutto questo nella quasi indifferenza della comunità internazionale, anche se la Corte Penale Internazionale dell’Aja ha recentemente aperto un procedimento per accertare se contro gli hazara non sia in atto un genocidio che va avanti da secoli e non solo un crimine di guerra. Fabio Poletti
Claudio Concas
Voci dall’Hazaristan
Storia del popolo Hazara fra discriminazione, marginalizzazione sociale e massacri etnici
2022 MIMESIS
pagine 204 euro 20 ebook euro 13,99
Per gentile concessione dell’autore Claudio Concas e dell’editore MIMESIS pubblichiamo un estratto dal libro Voci dall’Hazaristan
Gli uomini del Mullah Omar, che aveva dato il permesso di uccidere indiscriminatamente per due ore, cominciano ad operare una vera e propria pulizia etnica: non si fermarono per tre giorni. Uomini, donne, bambini, anziani. Una “furia genocida” (Rashid, 2010) si abbatté su Mazar-I-Sharif, gli Hazara venivano cercati casa per casa, via per via. “Gli uomini venivano freddati sul posto con tre colpi, uno in testa, uno sul cuore, uno sui testicoli. Le donne stuprate e uccise, i bambini schiavizzati o uccisi”. Quasi nessuno fra gli abitanti dell’antica città nel nord dell’Afghanistan uscì indenne dal massacro: chi era in età da combattimento fu ucciso subito perché ritenuto una minaccia, chi era troppo giovane, o troppo vecchio, fu condotto nelle prigioni e fu torturato, spesso, fino alla morte. Ci fu chi provò a resistere, ma per tutta risposta vennero “sgozzati di fronte alle loro famiglie e massacrati come le capre nei giorni di festa” (Rashid, 2010).
Altri furono semplicemente investiti mentre cercano di scappare, altri ancora condotti in stanze strette e buie nelle prigioni, prima di essere fucilati in massa. I Talebani non guardarono in faccia a nessuno, non fecero alcune differenze di età. In molti cercarono la fuga, ma il piano dei terroristi era preciso e, a differenza dell’anno prima, organizzato: fu una vera e propria caccia agli Hazara, per tutta la città. C’è un episodio in particolare che rende l’idea dell’odio e della violenza con cui i Talebani eseguirono la pulizia etnica a Mazar-e-Sharif. Circa un migliaio di prigionieri Hazara fu condotto da Mazar a Shiberghan all’interno di tre container. Stipati, senza aria e bruciati dal caldo torrido dell’estate afghana, morirono per mancanza d’ossigeno o per colpi di calore. Passato un giorno, i Talebani scaricarono i cadaveri come spazzatura nel deserto e li lasciano lì, a marcire, senza che nessuno potesse dare degna sepoltura. Sopravvissero soltanto tre prigionieri. Chiunque provò a fuggire venne intercettato, torturato e ucciso.
I Talebani massacrarono, con calcolo e metodo, fra le 5000 e le 10000 persone in meno di quarantotto ore, altre migliaia furono massacrate nei giorni e nelle settimane successive. A coordinare e a dare l’ordine di uccidere tutti gli Hazara, quell’8 agosto del 1998, è il nuovo governatore di Mazar-I-Sharif: Mullah Manan Niazi. Niazi diventò presto famoso come persecutore di Hazara e sciiti e come uno dei governatori Talebani più sanguinari e oscurantisti. A lui è attribuita una frase molto in voga fra i terroristi: “I Tajiki al Tajikistan, Gli Uzbeki all’Uzbekistan, gli Hazara al Ghoristan”. Il Ghoristan, in questo caso, non è uno stato dell’Asia Centrale. Il Ghoristan è il cimitero.
Il genocidio di Mazar-I-Sharif è rimasto, per molto tempo, sconosciuto ai più. Pochi giorni dopo i massacri compiuti dai Talebani, sono cominciati a circolare rapporti approssimativi degli avvenimenti di quei giorni. Molti di coloro che sono riusciti a fuggire hanno avuto modo di raccontare la terribile verità di quelle ore soltanto qualche mese dopo, quando gli ispettori di Human Rights Watch (HRW) e dell’Onu hanno cominciato a raccogliere interviste e testimonianze dei sopravvissuti. Il primo rapporto ufficiale di HRW è ricco di dettagli e racconti scioccanti, ma a quanto pare non servì a richiamare l’attenzione del mondo intero, che ormai considerava la morte in Afghanistan come un elemento quasi naturale.
Secondo William Maley, fra i più grandi conoscitori di Afghanistan, gli episodi di Mazar-e-Sharif “colpiscono per la loro crudeltà anche per gli standard afgani. Quello che abbiamo visto ad agosto non sono stati i civili coinvolti nel fuoco incrociato tra i combattenti, ma un massacro, un’orgia di uccisioni guidata da pregiudizi razziali e religiosi”, ha detto. “L’Afghanistan è in bilico sull’orlo di un grande conflitto etnico e forse anche di un genocidio”. In pochi hanno il coraggio di parlare effettivamente di genocidio. In “The Afghanistan Wars”, pubblicato nel 2021, Maley descrive in questo modo la scena degli Hazara stipati nei container e lasciati a morire al sole:
Con una modalità che ricorda Mengele ad Auschwitz, Niazi curò personalmente la scelta dei detenuti Hazara da spostare nei container. Questa frenesia e questa ferocia nell’uccidere qualsiasi Hazara fosse sopravvissuto, lo ha reso il protagonista, probabilmente, del più grande massacro della storia dell’Afghanistan moderno. Non importava se fossero bambini piccoli, donne, uomini o vecchi. Stavano solo sparando alle persone”(Maley, 2021, Rashid, 2010).
Alla fine della carneficina Mazar è un cimitero ambulante. Il sangue, mischiato alla polvere, macchia le pareti dei negozi e dei complessi residenziali. Mullah Niazi ordinò di non permettere a nessuno di raccogliere i corpi dei morti, che sarebbero dovuti rimanere per strada, come esempio, a marcire. Per almeno tre giorni i cadaveri rimasero dov’erano caduti. Alcuni testimoni raccontano di aver provato a raccogliere i corpi dei propri cari, che vedevano ulteriormente straziati dai cani randagi che ormai da giorni banchettavano coi cadaveri lasciati a marcire ai lati delle strade. I comandanti dei Talebani, attraverso autoparlanti e megafoni a bordo dei loro pick up, sfrecciavano per la città, ammonendo chi avesse in mente di raccogliere il cadavere di un parente, che invece doveva rimanere per terra come esempio per gli infedeli. Per chi disobbediva, c’era solo la morte. I pochi Hazara sopravvissuti al genocidio dell’8 agosto e delle giornate successive non ebbero una vita facile e Niazi non lasciò loro alcuna tregua. Le scelte, per i superstiti, furono davvero po- che: diventare sunniti, scappare in Iran, o morire. Non sempre, però, chi diventa sunnita o sceglie di andarsene fu risparmiato: in molti casi, infatti, i più sadici fra i terroristi Talebani uccidono gli Hazara semplicemente in quanto tali. Basti pensare ai molti Hazara sunniti massacrati dai Talebani negli anni compresi fra il 1997 ed il 1999.
Nei mesi successivi i Talebani cercarono di negare il genocidio, ma i racconti dei superstiti e le indagini imparziali li inchiodano ancora oggi alla terribile realtà. Ahmed Rashid raccoglie la testimo- nianza scioccante di un cittadino Tajiko di Mazar-I-Sharif, che perde il figlio nei momenti più concitati della carneficina. Quando, in lacrime, chiede spiegazione ai Talebani sul perché avessero sparato ad un bambino a sangue freddo, specificando di essere Tajiko, questi rispondono “Potevi dirlo e non ti avremmo sparato, né avremmo ucciso il tuo bambino. Noi stiamo cercando gli Hazara.”
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