Migrano gli uccelli. Migrano gli esseri umani. Gli uccelli cercano un clima più temperato dove sia più facile procacciarsi cibo e riprodursi. Gli esseri umani lasciano la loro terra, flagellata da guerre o carestia o povertà, alla ricerca di un luogo sicuro per sé e la propria famiglia. Succedeva 200 mila anni fa, quando l’Homo Sapiens apparse in Africa dilagando poi per il mondo. A proposito, siamo sicuri che i bianchi siano «gli eletti»? Succede ancora oggi. Solo nel 2019 cinquanta milioni di persone nel mondo hanno lasciato il loro Paese, per scappare da conflitti e povertà. Di questo parla il libro di Ruth Padel, Veniamo tutti da un altro luogo, pubblicato dalle edizioni Elliot. Un libro che è allo stesso tempo un saggio, un romanzo e una raccolta di poesie. Perché natura, scienza, musica, poesia, sono motivi ricorrenti nell’opera della londinese Ruth Padel che in dodici raccolte poetiche, tre romanzi e innumerevoli saggi documenta la sua preoccupazione e il suo impegno per la sorte dell’uomo e della natura. Nel 2009 è stata la prima donna a ottenere la cattedra di Poesia a Oxford. Ha ricevuto numerosi premi ed è stata più volte finalista del T.S. Eliot Prize. Il libro è diviso in undici capitoli in prosa che introducono altrettante sezioni di poesia dove, partendo dal viaggio originario delle cellule, dalla migrazione di uccelli e animali selvatici – colibrì, farfalle, zebre, gnu – approdano alla diaspora umana del mondo contemporaneo. Nel 2012 l’opera nella sua prima edizione intitolata The Mara Crossing, poi ampliata, venne nominata al London Poetry Awards e selezionata al Ted Hughes Prize. Fabio Poletti

Ruth Padel
Veniamo tutti da un altro luogo. Migrazione e sopravvivenza
traduzione di Paola Splendore e Maria Baiocchi
2023 Elliot
pagine 208 euro 19

Per gentile concessione dell’autrice Ruth Padel e dell’editore Elliot pubblichiamo un estratto dal libro Veniamo tutti da un altro luogo.

La migrazione crea civiltà. Ma mentre cresce, produce anche dislocazione e frammentazione. In Europa la rivoluzione industriale ha avuto vincitori e vinti, ha creato una massiccia emigrazione per frontiere e per mari, ma anche all’interno dei singoli Paesi. In America, uno dei temi collegati alla ferrovia fu il modo in cui allontanò le persone dai loro cari. «Ero sul treno n. 9, andavo a sud dalla Carolina» cantava Hank Williams, il figlio malato di un lavoratore della ferrovia nato nel 1923. «Ho lasciato la mia ragazza e la mia casa. Ho sentito quel fischio solitario».
Nel ventesimo secolo l’emigrazione divenne l’esperienza chiave della nostra epoca, e l’essere umano senza casa, come gli eroi vagabondi di Beckett o la Madre Coraggio di Brecht, una delle sue principali incarnazioni. Tra le più famose fotografie americane del ventesimo secolo c’è quella intitolata Madre migrante.
All’epoca della Grande depressione la fotografa Dorothea Lange lavorava in California per la Farm Security Administration. Nel marzo del 1936 visitò un accampamento di lavoratori migranti rovinati perché le coltivazioni che erano venuti a raccogliere erano state distrutte da una pioggia gelata. Fece sei fotografie di Florence Thompson e i suoi figli nel loro rifugio di tela, e le disse che queste foto avrebbero aiutato le persone degli altri accampamenti. Florence era partita dal- l’Oklahoma per la California nel 1926. Suo marito era morto, lasciandola incinta e con cinque figli da sfamare. Con un nuovo compagno e una famiglia più ampia, raggiunse le migliaia di vittime della depressione che si riversavano in California su vecchie automobili e camion dal Midwest, dall’Arkansas, dal Kansas, dal Texas e dall’Oklahoma.
Lange diede le foto alla Resettlement Administration di Washington, che inviò agli accampamenti migranti dieci quintali di cibo. (‘Migrante’ era la parola rispettosa, mentre i residenti li chiamavano okies). Ma Lange diede le foto anche alla stampa: il «San Francisco News» ne pubblicò una
di Florence che divenne nota come “Madre migrante”. La didascalia diceva «La famiglia di una lavoratrice agricola migrante. Sette bambini affamati».
Molti anni dopo, negli anni Settanta, Florence scrisse a un giornale locale: «Avrei preferito che non mi avesse fotografata. Non ci faccio neppure un penny. Non mi ha neanche chiesto il nome. Ha detto che non avrebbe venduto le foto. Ha detto che me ne avrebbe mandato una copia e invece non l’ha mai fatto». Nel 1983 Florence si ammalò di cancro ed ebbe un infarto. I figli non avevano i soldi per l’ospizio e ven- dettero la sua storia al «San Jose Mercury News». La storia e la fotografia arrivarono ai quotidiani nazionali. Duemila lettere, e trentacinquemila dollari in biglietti stropicciati arrivarono da tutti gli Stati Uniti su un “Migrant Mother Fund” amministrato dall’Hospice Caring Project della contea di Santa Cruz.
«La foto famosa di sua madre mi ha dato per anni grande forza, orgoglio e dignità perché lei era espressione di tutte queste qualità» scrisse una donna di Santa Clara. Un biglietto da New York diceva: «Accludo un assegno di dieci dollari per aiutare la donna che ha dato un volto eloquente, e con- tinua a farlo, a quella miseria estrema per cui il nostro Paese non ha mai fatto niente».
«Nessuno di noi aveva mai capito quanto la foto di mamma avesse colpito la gente» disse il figlio di Florence. «Quella foto era sempre stata quasi una maledizione. Dopo quelle lettere è diventato un motivo di orgoglio».
Ma a questo punto bisogna capire cosa si intende per “migrazione”, “nativi” e “da-dove-vieni”. Florence, nata Florence Leona Christie nel 1903, era una vera Cherokee. Era nata sotto un tepee di una riserva indiana, discendente della migrazione forzata nota come Sentiero di Lacrime. I suoi antenati erano arrivati in Oklahoma un secolo prima, quando l’Indian Removal Act del 1830 aveva espulso dalle loro terre meridionali i nativi americani. I Choctaw erano già andati via dopo aver lasciato la terra con un accordo. Il loro capo aveva detto all’«Arkansas Gazette» che la migra- zione era un “sentiero di lacrime e morte”. I Seminole erano stati spostati con la forza. Quattro anni dopo seguirono i Cherokee: su quindicimila furono quattromila i morti di fame e freddo durante il viaggio. Entro il 1883, quarantaseimila nativi americani erano stati cacciati dalle loro case negli Stati sud-orientali, lasciando venticinque milioni di acri ai coloni europei.
Florence morì a ottant’anni. Sulla sua tomba si legge: Madre migrante – Leggenda dell’istinto materno americano. Per un capriccio della Musa folle della Storia, una donna cherokee, la cui famiglia era stata cacciata via dall’America bianca, divenne l’icona della maternità americana.

Titolo originale: We Are All From Somewhere Else. Migration and Survival in Poetry and Prose
© 2012, 2020 by Ruth Padel
© 2023 Lit Edizioni s.a.s.