Eravamo migranti siamo diventati expat. Cambia niente, se non che al posto della valigia di cartone chiusa con lo spago oggi si usa il trolley. Italiani, popolo di poeti, santi, navigatori. Ed emigranti. Di più nell’Ottocento, quando fuggivano i braccianti in cerca della “Merica”. Meno oggi, che a fuggire sono solo i cervelli. Ma è pure peggio. Perché di cervelli ce n’è sempre un gran bisogno. Di tutto questo, parla il libro Storia sociale dell’emigrazione italiana, scritto da Enrico Pugliese e Mattia Vitiello, pubblicato da Il Mulino. Enrico Pugliese è professore emerito di Sociologia del lavoro alla Sapienza Università di Roma e collabora con l’Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del CNR. Ha insegnato a lungo all’Università Federico II di Napoli. Tra i suoi libri pubblicati dal Mulino ricordiamo Sociologia della disoccupazione (1993), L’Italia tra migrazioni internazionali e migrazioni interne (2006), Quelli che se ne vanno. La nuova emigrazione italiana (2018). Mattia Vitiello è ricercatore all’Istituto di Ricerche sulla Popolazione e le Politiche Sociali del CNR. Ha pubblicato L’emigrazione della Calabria. Percorsi migratori, consistenze numeriche ed effetti sociali (con F. Carchedi, Tau Ed., 2014). Ha curato i numeri speciali sulle politiche migratorie in ambiente ostile («Rivista delle politiche sociali», 2019) e sui minori stranieri non accompagnati («Studi Emigrazione», 2022). Nel loro libro vengono analizzate le trasformazioni economiche e sociali riguardanti l’Italia nella storia che hanno sempre avuto riflessi significativi sull’emigrazione. Dal canto suo, l’emigrazione ha sempre prodotto effetti importanti sulla realtà del Paese, incidendo sulla situazione demografica, sulle condizioni di vita della popolazione e sulla struttura di classe delle aree più direttamente interessate. Gli autori affrontano il fenomeno migratorio in diversi momenti della storia italiana, evidenziando l’esistenza di tre cicli, dotati di caratteristiche distintive precise e intervallati da due interludi, fasi di relativa stasi in cui la stessa carenza di sbocchi migratori ha inciso sulla realtà economica e sociale del paese. D’altronde, nel secolo e mezzo di storia unitaria gli italiani non hanno mai smesso di partire e di rientrare, per poi magari partire di nuovo. Fabio Poletti
Enrico Pugliese Mattia Vitiello
Storia sociale dell’emigrazione italiana
Dall’Unità a oggi
2024 Il Mulino
pagine 220 euro 26
Per gentile concessione degli autori Enrico Pugliese e Mattia Vitiello e dell’editore Il Mulino pubblichiamo un estratto dal libro Storia sociale dell’emigrazione italiana
Gran parte dei costituenti prima, e dei deputati della prima legislatura repubblicana poi, espresse una posizione di apertura nei confronti delle partenze degli italiani per l’estero, in contrasto con la linea seguita dal fascismo. La loro posizione, sebbene ancora saldamente agganciata alla tradizione liberale tipica del primo ciclo, era arricchita da un notevole contenuto sociale riguardante i diritti degli emigranti. Non a caso l’articolo 35 della Costituzione sulla tutela del lavoro riconosce, al comma 4, la libertà di emigrazione e la tutela del lavoro italiano all’estero.
L’inserimento di questo comma rappresenta il punto di arrivo del percorso iniziato con la legge del 1901 relativa al diritto dei cittadini italiani di emigrare e alla loro tutela in quanto lavoratori all’estero. Il comma 4 dell’articolo 35 della Costituzione costituisce il dispositivo normativo per incardinare giuridicamente l’emigrazione, considerata un elemento strategico per lo sviluppo economico dell’Italia all’interno di un quadro di valorizzazione e protezione del lavoro italiano sia in patria che all’estero. Coerentemente con questa impostazione furono ripresi e sviluppati gli strumenti giuridici già elaborati durante il primo ciclo per la protezione dei lavoratori all’estero: gli accordi bilaterali.
Con questi accordi la protezione dello stato italiano, in linea teorica, non voleva fermarsi ai confini nazionali, ma intendeva seguire l’emigrante fino al paese di immigrazione, arrivando a contemplare il diritto per i lavoratori italiani emigrati a un uguale trattamento rispetto ai lavoratori locali. Tuttavia, nella pratica degli accordi effettuati, la protezione dei lavoratori passava sempre in secondo piano rispetto alla tutela degli interessi economici dell’Italia. A questo riguardo è interessante la considerazione contenuta in un discorso dell’onorevole De Gasperi, pronunciato nel 1949 in occasione di un convegno della Democrazia cristiana. Si trattava di un suggerimento rivolto ai responsabili della politica dell’emigrazione affinché preparassero i futuri emigranti italiani alle esigenze dei paesi di immigrazione anche attraverso l’apprendimento delle lingue. Come scrive Michele Colucci, che riporta un brano del discorso:
Questo famoso discorso di De Gasperi riassume in maniera programmatica la politica che andava sostenendo la Democra- zia cristiana in tema di emigrazione fin dalla fine della guerra. Una sorta di liberismo paternalista accompagnato da accenti nazionalisti perfettamente in linea con l’esigenza di alleggerire la disoccupazione nelle aree disagiate del paese favorendo poi sul medio periodo l’afflusso di nuovi capitali attraverso le rimesse.
L’emigrazione contribuiva a smaltire una quota consistente dell’eccedenza di forza lavoro che, in un quadro europeo segnato dalla sua scarsità, poteva anche essere usata come moneta di scambio sul mercato energetico e infine, grazie alle rimesse, costituiva una fonte di valuta pregiata utile per il riequilibro della bilancia dei pagamenti. Ne conseguono una politica di incoraggiamento delle partenze degli italiani per l’estero e un tentativo di indirizzarle verso le mete più convenienti non tanto per i disoccupati italiani, quanto per gli interessi economici dello stato. Si diede il via in quegli anni a un «doppio movimento» di forza lavoro e materie prime, e l’emigrazione fu il «prezzo» che il potere politico scelse di pagare per poter risanare l’economia italiana. Cominciò allora a prendere forma e a svilupparsi la cosiddetta «emigrazione assistita» o, per tenere insieme il punto di vista del paese di emigrazione e quello della meta di immigrazione, la fase delle migrazioni negoziate, in cui il ruolo dei negoziatori era assegnato solamente agli apparati burocratico-istituzionali delle nazioni coinvolte.
La stagione degli accordi bilaterali, cominciata nel 1946, ne vide la stipula con la gran parte dei paesi dell’Europa continentale segnati dalla scarsità di manodopera (Belgio, Cecoslovacchia, Francia, Gran Bretagna, Lussemburgo, Olanda, Svezia, Svizzera) e anche con paesi extraeuropei (Argentina, Brasile, Australia). Questa intensa attività si concluse nel 1955, con l’accordo firmato con la Repubblica federale tedesca.
I termini e le vicende del famigerato accordo «uomini contro carbone» stipulato dall’Italia con il Belgio illustrano bene la fortuna e, al contempo, le ragioni del fallimento di questo tentativo di programmazione dell’emigrazione. Da una parte, le autorità italiane si impegnavano a far partire per il Belgio 50.000 italiani da impiegare nelle miniere di carbone. Dal lato opposto, quelle belghe si impegnavano a vendere una determinata quantità di carbone al giorno in via prioritaria all’Italia per ogni italiano che fosse andato a lavorare nelle loro miniere. Ovviamente, come si legge nel testo dell’accordo,
Il governo belga curerà che le aziende carbonifere garantiscano ai lavoratori italiani convenienti alloggi in conformità delle prescrizioni dell’art. 9 del contratto tipo di lavoro; un vitto rispondente, per quanto possibile, alle loro abitudini alimentari nel quadro del razionamento belga; condizioni di lavoro, provvidenze sociali e salari sulle medesime basi di quelle stabilite per i minatori belgi.
Questa parte dell’accordo, cioè quella non economica, venne raramente rispettata durante tutto il suo periodo di validità. La durezza delle condizioni lavorative e di vita degli italiani in Belgio è testimoniata dai continui incidenti e dai morti durante il lavoro in miniera, come già è stato ricordato in precedenza. Queste condizioni cambieranno solamente dopo la tragedia di Marcinelle, quando l’accordo italo-belga fu revocato e cessarono i flussi programmati tra i due paesi.
È proprio sugli aspetti sociali che si espresse in tutta evidenza il fallimento dell’emigrazione assistita. Nella maggior parte dei casi, le politiche di immigrazione degli stati ospiti prevalevano nella determinazione delle condizioni di vita degli emigranti italiani, anche perché nel nostro paese nessuno controllava le condizioni di implementazione degli accordi bilaterali. A fronte dell’autorità belga, svizzera o tedesca incaricata di mettere in atto le norme sull’immigrazione non esisteva una pari autorità istituzionale italiana incaricata di sorvegliare il rispetto degli accordi e di tutelare i diritti dei connazionali emigranti.
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