In ogni inizio c’è sempre una speranza. Che col passare del tempo diventa un’illusione, talvolta un rimpianto. È il destino degli uomini e delle donne delle prime ondate migratorie, a metà degli Anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso, che hanno fatto – nel senso letterale del termine, costruito – l’Europa. La Francia nello specifico, in questo Sole amaro scritto da Lilia Hassaine e pubblicato dalle Edizioni e/o. La scrittrice, nata in Francia, ma di una famiglia di origine algerina di cui lei rappresenta la terza generazione, in questo romanzo acclamato dalla critica internazionale, ripercorre le tappe di una famiglia algerina che si riunisce a Parigi dove il capofamiglia si spezza la schiena da anni, abbagliata dal boom economico che promette benessere per tutti. Anche se non sarà mai davvero così per quelle famiglie relegate nelle banlieu, dove il degrado avanza con la sovrappopolazione. Agli anni del boom seguiranno quelli della crisi economica e poi della disgregazione sociale, tra alcol droga e criminalità. A farne le spese saranno soprattutto le seconde generazioni, europei senza esserlo davvero o almeno senza alcun riconoscimento, impegnati in una faticosa integrazione da cui si sentono respinti, vittime di pregiudizi e, non da ultimo, in preda a una grande crisi identitaria. Non più nordafricani o arabi, di cui spesso non conoscono nemmeno la lingua, nè ancora europei alle prese con una burocrazia che li respinge e mina ogni loro certezza. Sole amaro è la storia dell’epopea vissuta da Naja e Said, dai loro figli e figlie, dai vicini nelle stesse condizioni, una storia di molta sofferenza, di momenti di grande felicità, di amori e delusioni, di solidarietà umana e sforzi per strapparsi di dosso l’etichetta di immigrati. Una storia struggente e a tratti ironica che apre gli occhi su una realtà che troppo spesso vogliamo ignorare. Fabio Poletti
Lilia Hassaine Sole amaro traduzione dal francese di Alberto Bracci Testasecca 2023 Edizioni e/o pagine 160 euro 17,00Per gentile concessione dell’autrice Lilia Hassaine e delle Edizioni e/o pubblichiamo un estratto dal libro Sole amaro.
La guerra d’Algeria era finita portandosi dietro il suo mucchio di silenzi e segreti. Said lavorava in Francia da ormai cinque anni. Da semplice manovalanza era diventato operaio specializzato e sapeva che la sua carriera non avrebbe fatto ulteriori progressi. La sua unica fierezza era aver messo da parte abbastanza soldi per far venire la famiglia. Naja immaginava che a Parigi sarebbe stato tutto più facile. Convinta che alle sue figlie non sarebbe mancato niente, sulla nave che la portava da Algeri a Marsiglia aveva dato agli uccelli i datteri che le restavano. L’orizzonte era limpido. La vera vita cominciava. Aveva spesso pensato alla Francia, all’idea che si era fatta del comfort e dell’abbondanza. Ben presto, però, era tornata con i piedi per terra. L’appartamento si trovava al terzo e ultimo piano di uno stabile malandato, c’era una sola camera da letto e un salotto dotato di lavabo. E soprattutto il marito non era più lo stesso, era invecchiato di brutto, aveva occhi talmente spenti e tristi da aver cambiato colore, conseguenza di anni di lavoro alla catena di montaggio nelle officine di imbutitura della fabbrica. Said aveva conosciuto le baraccopoli, poi i centri d’accoglienza per lavoratori immigrati, dormitori in cui gli operai si stipavano in sei o sette senza la minima intimità. Considerati semplici strumenti di lavoro, quegli uomini erano stati tagliati fuori dalle loro famiglie e dai piaceri della vita. In molti erano scivolati nell’alcol. Appena arrivate, le mogli erano preda delle frustrazioni dei mariti. Naja rimase incinta. Una domenica di luglio Said portò tutta la famiglia dal fratello maggiore. Kader abitava in una villetta con giardino, con fiori sul prato e api nei fiori. Era una casa arcobaleno in un quartiere grigio, una casa in pietra molare con le persiane dipinte di blu. Un gatto si stiracchiava al sole sugli scalini della soglia. Il luogo emanava calore. Si spingeva un cancellino di legno e subito dietro c’era un piccolo stagno. Maryam aveva undici anni, Sonia nove e Nour cinque. Maryam corse a tirare il pane ai pesci, Sonia prese il gatto, Nour sgattaiolò tra le gambe del padre. Naja entrò per prima. Aveva portato un cestino di pane matlouh da lei cucinato il giorno prima. Kader abbracciò Said, che non vedeva da dicembre. I due fratelli vivevano a venti chilometri l’uno dall’altro, ma Kader passava parte dell’anno in Belgio: lavorava nella ditta produttrice di cioccolato dei suoceri e uno dei loro stabilimenti si trovava dall’altra parte del confine. Gli affari andavano bene. Ringraziò Naja per il pane, «Ah, i buoni odori del paese! Come stanno le mie montagne?», poi si precipitò in cucina per mettere a bollire l’acqua: «Ève dovrebbe arrivare da un momento all’altro. La domenica dà una mano in biblioteca». Naja aveva subito notato i libri allineati sugli scaffali del salotto o ammucchiati in disordine sulle poltrone in similpelle. Non ne aveva mai visti così tanti. Si avvicinò per cercare di decifrarne i titoli. Parlava francese, ma non sapeva leggerlo né scriverlo. Da quando era arrivata, una volta alla settimana prendeva lezioni in un centro comunale insieme ad altre donne magrebine. Imparava in fretta. Mentre passava il dito sulla polvere delle copertine di pelle, Duras, Gary, Céline, sentì uno stridio di pneumatici. «È Ève» esclamò Kader. «Ha appena preso la patente, è un disastro!». Ève aprì la porta ridendo. «Ho di nuovo ammaccato la macchina! Buongiorno!». Naja era in soggezione. Mai aveva visto una donna come quella. Indossava una minigonna in vinile e una camicetta di raso beige sotto cui ballonzolavano i seni. Era bionda, con una frangetta troppo lunga e la faccia disseminata di lentiggini. Ève si avvicinò e le depositò un bacio sulla guancia. «Ecco finalmente la famosa Naja!». Le due donne si scambiarono uno sguardo affettuoso. «Vieni, voglio farti vedere una cosa» la invitò. «Lasciamoli qui a chiacchierare». Salì le scale senza togliersi gli stivali e Naja la seguì, incapace di staccarle gli occhi di dosso. Osservava come si muoveva, come parlava, come si comportava. Tutto in lei era aggraziato e interessante. Naja non ascoltava Ève, la analizzava. «Questa è camera nostra. Ho messo qui una cosa che era di mia madre». Si inginocchiò e tiro fuori una cappelliera da sotto il letto. Incartato all’interno c’era un gilet da neonato in lana cruda, lavorato a maglia, con bottoncini bianchi di madreperla a forma di conchiglia. «È bellissimo» mormorò Naja, che non aveva ancora detto una parola. «Sono contenta che ti piaccia, te lo regalo!» rispose Ève chiudendo la scatola con un colpo secco. «Andiamo fuori, adesso, è una giornata splendida». Naja era sopraffatta dal ciclone Ève. Si lasciava guidare, non osava dire niente, non osava neanche schermirsi per il regalo. Tornarono in salotto. Le bambine stavano intingendo biscotti nel caffellatte. Nour aveva trovato un libro illustrato sulla musica e lo sfogliava senza alzare la testa, impermeabile al mondo. Era molto diversa dalle sorelle. Era l’unica a essersi rifiutata di dare un bacio alla zia, tanto che Said aveva dovuto aggrottare le sopracciglia. Nour era a parte, sia come bellezza che come carattere. Certe volte sembrava che in quel corpo da bambina abitasse un’anima adulta. Per via dei capelli nerissimi e degli occhi grigiazzurri le sorelle maggiori le avevano affibbiato un nomignolo antipatico, la chiamavano sahira, strega, ma Nour non faceva caso a loro, voleva bene solo al padre. © Éditions Gallimard, 2021 Copyright © 2023 by Edizioni e/o