Anche se non sembrerebbe dal titolo, questo libro non è una resa ma uno schiaffo a tutti noi bianchi. Reni Eddo-Lodge, britannica di madre nigeriana, era solo una blogger quando nel 2014 scrisse sui social la frase Perchè non parlo più di razzismo con le persone bianche, titolo del suo primo libro uscito in Gran Bretagna nel 2017 e pubblicato oggi dalle Edizioni e/o. Il suo era un moto di rabbia per l’incapacità di molti di vedere il razzismo come un muro spesso invalicabile, dove dall’altra parte non ci sono solo razzisti cattivi ma pure bianchi magari inconsapevolmente razzisti e che per questo non lo ammetterebbero mai. La cultura bianca dominante nel mondo è talmente permeata nei gangli della vita sociale da essere quasi invisibile. Magari la parola negro non la usa più nessuno, ma i pregiudizi sono duri a morire. In questo libro pluripremiato che potrebbe benissimo essere il manifesto del nuovo antirazzismo, questa giovane scrittrice ribalta il nostro mondo come un calzino, raccontando quanto sia facile essere razzisti. Il suo non è un lavoro militante, semmai pedagogico. Un lavoro a tutto campo che la vede oggi impegnata a ricostruire le fermate della metropolitana di Londra, tutte declinate al maschile, cercando di trovare nuovo spazio a identità femminili e non solo. Fabio Poletti
Reni Eddo-Lodge
Perché non parlo più di razzismo con le persone bianche
traduzione di Silvia Montis
2021 Edizioni e/o
pagine 240 euro 16,50 ebook euro 11,99
Per gentile concessione dell’autrice Reni Eddo-Lodge e dell’editore e/o pubblichiamo un estratto dal libro Perché non parlo più di razzismo con le persone bianche.
Per molto tempo il metro di valutazione del razzismo è stato definito dalle azioni di nazionalisti e suprematisti bianchi, facili da disapprovare. Queste forme di estremismo vengono sempre condannate con forza dalle tre principali coalizioni politiche. Ma l’orgoglio bianco – reazionario e spesso contrapposto al progresso sociale – non è mai scomparso. Riaffiora negli alti e bassi di gruppi come il National Front, il British National Party e la English Defence League. L’azione politica di queste frange – che si scatenino per strada in felpe con cappuccio e passamontagna, o simulino rispettabilità presentandosi ai congressi in giacca e cravatta – si ripercuote sulla vita reale di persone che non sono né bianche né britanniche.
Se tutte le forme di razzismo fossero così facili da individuare, cogliere e denunciare come quelle del potere bianco, il compito degli antirazzisti sarebbe molto più semplice. Ma nella percezione collettiva, se non c’è stata un’aggressione o non è stata pronunciata la parola “negro”, allora un gesto o un comportamento non possono essere razzisti. Non c’è razzismo se una persona nera non è stata presa a sputi per strada, o se un politico nazionalista incravattato non si è lamentato della mancanza di posti di lavoro per i cittadini britannici (e se lo ha fatto, si potrà comunque discutere del razzismo della sua affermazione, perché non è da razzisti voler proteggere il proprio paese!). Arriviamo alla contraddizione più eclatante: se il suprematismo bianco è davvero il termine di paragone attraverso cui stabiliamo se un atteggiamento è razzista o meno, com’è possibile che la discriminazione prosperi in settori e ambienti i cui responsabili non sono estremisti? Il problema dev’essere più profondo.
Ci diciamo che le persone perbene non possono essere razziste. Siamo convinti che il vero razzismo possa esistere solo nell’animo di gente malvagia. Ci persuadiamo che abbia a che fare con valori morali, quando invece è la strategia di sopravvivenza di un potere sistemico. Se una grossa fetta della popolazione vota candidati e partiti politici che usano esplicitamente il razzismo per le loro campagne, ci diciamo che tutta questa gente non può essere razzista – perché questo ne farebbe dei mostri senza cuore. Ma la questione non riguarda la gente perbene o la gente cattiva.
È difficile cogliere e denunciare il lato nascosto del razzismo strutturale. Basta un attimo e ti scivola via tra le dita. Non è così semplice da riconoscere come una bandiera di San Giorgio o un torace nudo a una marcia della English Defence League. Ha un’aria molto più rispettabile.
Mi rendo conto che il termine “strutturale” può evocare qualcosa di astratto. Strutturale. Che significa? Ho scelto di usare questa parola anziché “istituzionale” perché credo che il razzismo di cui parliamo abbia invaso spazi molto più estesi delle nostre istituzioni più tradizionali. Pensare al quadro più ampio può aiutarci a vedere le strutture. Il razzismo strutturale presuppone decine, o centinaia, o migliaia di persone con gli stessi pregiudizi, che si uniscono a formare un’organizzazione agendo di comune accordo. Il razzismo strutturale è la cultura organizzativa, impenetrabilmente bianca, stabilita da questi individui – e chi non rientra nel canone deve adeguarsi o accettare di essere escluso. Strutturale è spesso l’unico modo per cogliere ciò che passa inosservato – sopracciglia inarcate in silenzio, stereotipi impliciti, giudizi fulminei su una competenza formulati sulla base di preconcetti inconsapevoli. Lo stesso anno in cui ho deciso di smettere di parlare di razzismo con le persone bianche, nel sondaggio annuale sulle British Social Attitudes, condotto dal Centre for Social Research su diversi temi sociali, un numero molto maggiore di intervistati ha ammesso di avere atteggiamenti razzisti. Questo netto incremento riguardava, stando al servizio di The Guardian, «professionisti bianchi tra i 35 e i 64 anni, con un alto livello di istruzione e che guadagnano parecchio». Ecco che faccia ha il razzismo strutturale. Non riguarda soltanto i pregiudizi personali, ma le loro ripercussioni sociali. È quel tipo di razzismo che può avere un impatto devastante sulla vita della gente. Ci sono buone probabilità che uomini bianchi con un alto livello di istruzione e lauti guadagni siano proprietari di case, direttori d’ufficio, amministratori delegati, presidi o vicerettori universitari. Quasi certamente sono persone che influenzano le vite degli altri. Quasi certamente sono persone che contribuiscono a definire una cultura organizzativa. È difficile che si vantino delle loro opinioni politiche con colleghi o conoscenti, per via dello stigma sociale associato alle posizioni razziste. Il loro razzismo è occulto, nascosto. Non si manifesta con sputi alla gente per strada. Si cela invece nel sorriso di scuse con cui spiegano al malcapitato di turno che non avrà il lavoro. Si incarna nel movimento del polso con cui gettano un curriculum nel cesto dei rifiuti, solo perché il candidato ha un nome straniero.
Il panorama nazionale è fosco. Numerose ricerche mostrano che il razzismo permea il tessuto sociale del nostro mondo. Tutto ciò richiede una ridefinizione collettiva di numerosi aspetti: cosa significa essere razzisti, come si manifesta il razzismo e cosa dobbiamo fare per porvi fine.
Le persone nere, a quanto sembra, devono fare i conti con un handicap di partenza a ogni tappa importante delle loro vite. Immaginiamo un bambino nero al suo primo giorno di scuola – la prima istituzione con cui dovrà confrontarsi in maniera autonoma dai genitori. Mamma e papà sono pieni di speranza pensando a cosa potrebbe diventare – un artista, un medico, il prossimo primo ministro –, e così il bambino si prefiggerà di raggiungere questi obiettivi tanto desiderati. Forse, però, i genitori farebbero meglio a contenere l’entusiasmo, perché tutti i dati in nostro possesso ci dicono che il figlio partirà in netto svantaggio. Stando alle statistiche del ministero dell’Istruzione britannico, le probabilità che un bambino nero sia espulso da scuola sono tre volte più alte di quelle del resto della popolazione scolastica.
© 2017 by Reni Eddo-Lodge
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