La chiamarono “la nave dei bambini”, per quei 60 minori che annegarono, insieme ad altri 268 migranti, su un barcone in acque maltesi non distante da Lampedusa. Era l’11 ottobre 2013. Da quella storia Fabrizio Gatti, giornalista d’inchiesta, autore di Bilal, il mio viaggio da infiltrato verso l’Europa e L’infinito orrore, ha tratto un romanzo, Nato sul confine, pubblicato da Rizzoli. Un romanzo che è più vero di una storia vera. «Nomi, cognomi e vicende familiari sono frutto della mia fantasia», spiega Fabrizio Gatti del romanzo con un finale che ci interroga sul significato di essere figli, genitori e persone libere e sulle responsabilità e i ruoli che la società ci affida. Protagonista del libro è Mabruk, un bambino non ancora nato, ancora nel ventre di sua madre incinta di otto mesi e in fuga dalla Siria, dilaniata dalla guerra civile. Attraverso il suo sguardo di bambino non ancora nato assistiamo all’odissea dei tanti che scelgono il mare infido e barconi non sicuri, per scappare da una vita impossibile alla ricerca di un futuro migliore. La mamma di Mabruk è donna colta e agiata, una farmacista che condivide la fuga con altri disperati dopo lo scoppio della guerra civile nel 2011.
Al romanzo romanzato Fabrizio Gatti aggiunge squarci di verità, raccontando in parallelo la storia vera della “nave dei bambini”, affondata anche per quel rimpallo di responsabilità tra le navi italiane e quelle maltesi. Mabruk viene al mondo alle 16 e 52 di quello stesso 11 ottobre 2013. «La forza dell’umanità non la si vede negli uomini, nei loro muscoli, nel loro coraggio. La forza dell’umanità la si vede in una madre che partorisce. La mia ha lanciato un urlo così lungo e potente che lo ha sentito tutto il peschereccio. Nella stiva è scoppiato un applauso. Ed è risalito su, su con la notizia della mia nascita». Ma in un giorno così non ci può essere spazio solo alla gioia. Ci sono le 268 vittime, i 60 bambini finiti quel giorno in fondo al mare che ancora ci guardano e ci chiedono se abbiamo fatto davvero tutto il possibile perché queste cose non accadessero. O non accadessero mai più. Una domanda che ancora oggi ci rende incomprensibile il palleggio di responsabilità durato quattro ore e mezza tra le navi italiane e quelle maltesi, prima di far partire i soccorsi. Fabio Poletti Fabrizio Gatti Nato sul confine 2023 Rizzoli pagine 208 euro 16Per gentile concessione dell’autore Fabrizio Gatti e dell’editore Rizzoli pubblichiamo un estratto dal libro Nato sul confine.
Ventiquattro ore prima della mia nascita, alle diciassette in punto del 10 ottobre, mia mamma è seduta accanto all’autista di un furgone nero e arroventato dal sole. Io sono dentro la sua pancia, probabilmente a testa in giù. L’autista l’ha fatta sedere davanti, per un minimo di gentilezza. Non se l’è sentita di chiudere una giovane donna all’ottavo mese di gravidanza con gli altri cinquanta passeggeri pigiati nel retro del furgone. Cinquanta persone ammassate, neanche fossero scatoloni. Uomini, donne e bambini a soffrire il caldo, come dentro un forno acceso. Assetati come la terra arida che si apre davanti agli occhi scuri e preoccupati della mia mamma. Cinquantatré per la precisione. I passeggeri che hanno pagato per viaggiare in quel modo sono cinquantatré. L’autista e il suo aiutante sono gli organizzatori del viaggio. Almeno così ho capito io. Mia madre se ne sta in mezzo a loro due, con un pesante velo marrone calato sulla testa che le lascia scoperti solo gli occhi. Tiene le mani eleganti incrociate sul pancione, le spalle strette e la schiena dritta, irrigidita dalla paura e dal disgusto. Cerca così di evitare qualsiasi contatto con i corpi sudati e fetenti dei due uomini accanto. L’autista ha un viso smagrito, segnato dalla barba di qualche giorno, i capelli incrostati di sabbia e un paio di occhiali a specchio Ray-Ban con la montatura dorata. Gli occhiali sono il suo tocco di classe. Li ha rapinati a un passeggero qualche mese fa, un anziano avvocato di Asmara che aveva osato criticare in pubblico il presidente e per questo era dovuto scappare in fretta e furia di notte. L’autista indossa una maglietta nera con una grande scritta rosa fosforescente sul petto: «Good life», bella vita. Anche i suoi pantaloni un tempo dovevano essere neri, ma adesso sono sporchi e ingrigiti dalla polvere. Dai pantaloni escono due piedi magri che faticano a tenere acceso il motore. Acceleratore, freno, frizione, freno, frizione, acceleratore: il furgone carico di rassegnazione e sudore procede lento nella coda di auto, camioncini e fuoristrada. L’aiutante dell’autista, seduto a destra della mia mamma, osserva in silenzio il sole che sempre più giallo si avvicina alla superficie del mare. La scena è proprio questa: lo spazio infinito del deserto dentro il finestrino aperto a sinistra, il traffico quasi immobile sulla strada asfaltata dritta come un palo al centro del parabrezza e, dall’altra parte, terreni aridi, rocce e cespugli rinsecchiti, il biancore della spiaggia e la schiuma delle onde. Il sole ci illumina stando più o meno a metà tra il parabrezza e il finestrino di destra. L’aiutante mastica un pezzetto di legno e puzza come l’autista: troppo aglio e cipolle in quello che mangiano e poca acqua nella loro igiene. Lui ha la barba lunga sotto il mento e i capelli rasati. Il suo camicione bianco, che gli arriva fino ai piedi, ha preso le stesse sfumature delle dune del deserto. Non so dirvi altro di lui, perché da quando è apparso all’improvviso accanto all’autista, all’inizio del viaggio, non ha detto né fatto nulla. Ogni tanto guarda mia madre. Cerca di intercettare i suoi occhi. Ma lei tiene lo sguardo orgoglioso, alto e fisso sulla strada. Adesso tocca a noi passare il posto di blocco. Due uomini vengono verso il nostro furgone e con gesti decisi obbligano l’autista a girare a destra e a fermarsi al centro di uno spiazzo secco al margine della strada. Imbracciano tutti e due il tipo di arma che ha ucciso più uomini, donne e bambini nel mondo. Di sicuro penserete alla bomba atomica o a qualche altro tipo di ordigno. Si tratta invece di un fucile d’assalto con l’impugnatura e il calcio di normalissimo legno, e il resto dei meccanismi in robustissimo ferro. La sua sigla è AK-47. Ma il nome con cui è più conosciuto lo si deve all’inventore, Mikhail Kalashnikov, ingegnere e militare al servizio dell’Unione Sovietica. Una delle armi più micidiali al mondo è ora puntata verso il parabrezza, dritta contro la faccia della mia mamma. Lei trattiene il respiro e non si muove di un millimetro. Dentro la sua pancia, io percepisco tutto: il sapore delle sue gioie e dei suoi dolori, la sua fame, la sua sazietà. Adesso percepisco il sapore aspro del suo terrore. I due uomini armati indossano una divisa strana. Uno ha i pantaloni mimetici, verde chiaro, verde scuro e marrone, e sopra un giubbotto verdino con i tasconi pieni di caricatori. L’altro ha pantaloni mimetici grigi e neri, e un giubbotto beige, lo stesso colore dei reparti in azione nel deserto. Ai piedi però non portano scarponi o anfibi, hanno tutti e due ciabatte infradito. Quello con i caricatori si rivolge all’autista, gli dice qualcosa, poi alla fine sorride e ordina al collega di non puntare il kalashnikov in faccia a mia madre. Ci lasciano passare. © tutti i diritti riservati