Che in Italia sia al potere una donna cambia davvero poco. Non è certo la prima presidente del Consiglio di sesso femminile a mescolare le carte in tavola. Il nostro era e rimane un Paese molto maschilista, dove vige un sistema maschiocratico malgrado Giorgia Meloni. La battaglia sulla parità di genere, dai salari ai diritti più elementari, è tutt’ora in corso e non se ne vede certo la fine. Emanuela Griglié e Guido Romeo, in questo Maschiocrazia scritto per Codice Edizioni, provano a scandagliare l’universo e sociale ed economico, ma soprattutto quello politico, sotto la lente di ingrandimento del rapporto uomo donna, un rapporto di forza vien da dire, nei gangli della società moderna. Il risultato è ovviamente sconcertante, disarmante verrebbe da dire. E non ci fa ben sperare che un ministro, del governo Meloni appunto, come Giuseppe Valditara che riveste il suo importantissimo ruolo all’Istruzione, neghi l’esistenza del patriarcato nel nostro Paese, addebitando solo ai migranti le peggiori violenze fisiche sulle donne. Al ministro va ricordata la definizione letterale del termine patriarcato: «In sociologia, il patriarcato è un sistema sociale in cui gli uomini detengono in via primaria il potere e predominano in ruoli di leadership politica, autorità morale, privilegio sociale e controllo della proprietà privata. In ambito familiare, il padre o la figura paterna esercita la propria autorità sulla donna e i figli». Sembra la perfetta fotografia della società italiana e delle democrazie occidentali e non solo. Esempi di un nuovo modello più inclusivo ed equilibrato, in politica come in economia, esistono, ma le resistenze sono molte e non scontate, e il potere femminile è ancora ben lontano dall’essere consolidato e strutturato in una rete influente e capillare. Il problema è che siamo tutti, anche le donne e i ragazzi più o meno fluidi della GenZ, molto più maschilisti e conservatori di quanto siamo disposti ad ammettere. E il girl power è diventato spesso un fenomeno talmente mainstream che rischia di essere un sottoprodotto di quella maschiocrazia – o come dicevamo, per usare una parola tornata di recente molto in auge: patriarcato – dove le donne, preso il potere, non agiscono diversamente dai loro predecessori maschi. Attraverso dati, interviste a Roberta Metsola, Kaja Kallas, Vera Gheno e molte altre, oltre che ricerche scientifiche e cronaca recente, Maschiocrazia è la fotografia lucida e provocatoria di una mutazione epocale che la società contemporanea sta affrontando, e svela un quadro più complesso della semplice discriminazione di genere. Fabio Poletti

Emanuela Griglié Guido Romeo

Maschiocrazia

Perché il potere ha un genere solo (e come cambiare)

2024 Codice Edizioni

pagine 160 euro 15

Per gentile concessione degli autori Emanuela Griglié e Guido Romeo e dell’editore Codice pubblichiamo un estratto dal libro Maschiocrazia

 

La verità è che la politica si muove più lentamente rispetto al resto del mondo. Il già citato report 2023 del World Economic Forum analizza anche le posizioni di potere nelle aziende private, e qui ci sono buone notizie: la quota delle donne in ruoli dirigenziali ha visto un costante aumento dal 2017 al 2023. Nel 2023 la parità di genere per questa categoria ha raggiunto il record del 43,1%. Complessivamente le donne in ruoli apicali sono il 31%, anche se le percentuali variano moltissimo a seconda del comparto: per esempio abbondano nelle organizzazioni non governative (48%) e nell’healthcare, ma scarseggiano in settori chiave come quello tecnologico (24%), quello energetico (20%) e quello delle infrastrutture (16%).

I dati mostrano come nelle aziende in cui ci sono più donne che lavorano queste hanno anche maggiori possibilità di occupare ruoli di vertice, ma la proporzione è sfalsata. Se ne deduce che, sebbene l’assunzione di più donne al livello base sia una componente importante per colmare i divari di genere nella leadership, non è però sufficiente. Ecco perché i correttivi sono fondamentali. In Italia la situazione è migliorata soprattutto per merito della legge Golfo-Mosca del 2011, che prevede che il genere meno rappresentato nei consigli d’amministrazione e nei collegi sindacali delle società quotate in Borsa e delle società a controllo pubblico ottenga almeno il 30% dei membri eletti (aumentato al 40% con la legge di bilancio 2020). Anche se nelle prime 50 aziende per capitalizzazione quotate alla Borsa di Milano ci sono soltanto due donne CEO. Tra i 28 gruppi bancari presenti sul sito della FABI (Federazione Autonoma Bancari Italiani), il sindacato bancario più rappresentativo in Italia, solo due hanno una donna alla guida: Paola Pietrafesa del gruppo Allianz Bank ed Elena Patrizia Goitini del gruppo BNL, dal

2006 sotto il controllo dalla francese BNP Paribas, mentre al vertice di una delle aziende di Stato le nomine della primavera 2023 del governo Meloni hanno portato Giuseppina Di Foggia alla guida di Terna. E nella sua lunga storia, che parte nel 1892, la Banca d’Italia non ha mai avuto né una governatrice né una direttrice donna. Così i vertici dei grandi della Terra sono ancora oggi sfilate di completi scuri e cravatte. Una consuetudine così difficile da sradicare che capita pure di sbagliarsi, come è successo al forum di Davos nel 2019 all’allora vicepresidente Joe Biden: quando gli hanno presentato il presidente di Mastercard ha stretto deciso la mano al maschio presente nella sala; peccato che fosse il marito della CEO Ann Cairns. Insomma, nonostante la parità di genere sia un tema sdoganato e metabolizzato dalla società, i progressi nel ribilanciamento dei ruoli di potere vanno ancora a rilento. E non sono soltanto i numeri il problema. Quando si parla di potere c’è anche un discorso qualitativo oltre a quello quantitativo. Come vedremo nei prossimi ca- pitoli, se il modello di leadership resta quello maschile poco importa se a esercitarlo è un uomo o una donna.

Giovani pregiudizi

Connessi, eticamente impegnati e immuni agli stereotipi di genere. È davvero questo il profilo dei millennials e centennials che nei prossimi decenni potrebbero rivoluzionare gli assetti elettorali? In realtà i bias di genere, quando tocca votare ed eleggere un proprio rappresentante, sono tutt’altro che superati. E, anzi, molto spesso sono le generazioni più giovani a essere portatrici di molti vecchi pregiudizi. Lo dice l’Indice di Reykjavík, un rapporto unico nel suo genere perché valuta gli atteggiamenti nei confronti della leadership femminile nei Paesi del G7 più India, Kenya e Nigeria. L’ultima indagine è stata svolta su un campione di 20.000 adulti e i risultati sono francamente sorprendenti e scoraggianti. Solo il 38% delle persone in Giappone ha dichiarato di sentirsi a proprio agio con l’idea di un capo di governo donna o di un CEO donna di una grande azienda. Sia in Nigeria che in Kenya i punteggi (su 100) sono stati 62 per il governo e 56 per la politica. Il punteggio medio del G7 per governo e politica è stato più alto, mantenendosi abbastanza stabile negli ultimi tre anni a 78. Ma questo è ancora lontano da un punteggio pieno, del 100%, che indicherebbe che donne e uomini sono considerati ugualmente adatti a comandare. Inoltre, solo il 41% delle persone in Germania ha affermato di sentirsi a suo agio con una donna a capo del governo, nonostante sia il Paese in cui per sedici anni ha governato la cancelliera Angela Merkel.

«È irrealistico pensare che il fatto che ci sia una donna leader sia sufficiente a cambiare profondamente la società e la percezione delle persone», afferma Michelle Harrison, che guida la divisione della società di ricerche di mercato Kantar che ha realizzato i sondaggi dell’Indice di Reykjavík. Oltretutto la situazione potrebbe essere ancora più grave di quanto suggeriscano questi risultati. Infatti gli analisti dell’Indice di Reykjavík hanno scoperto che quando vengono poste domande dirette ed esplicite sul pregiudizio contro le donne leader, molti intervistati negano il proprio pregiudizio. Ciò è in gran parte dovuto alla ricerca di “desiderabilità sociale”: in sostanza, è difficile ammettere una convinzione che è vista come socialmente inaccettabile. E insomma il pregiudizio della desiderabilità sociale confonde i risultati di ricercatori e sondaggisti nei numerosi campi in cui le persone si sentono a disagio nell’essere completamente oneste, portando a risultati potenzialmente im- precisi. Negli Stati Uniti la prima campagna presidenziale di Hillary Clinton nel 2008, caso che ha appunto fatto scuola, ha portato ad alcune interessanti scoperte sull’ostilità esplicita rispetto a quella nascosta verso le donne candidate alla presidenza. Più di un quarto degli intervistati, infatti, ha ammesso di essere arrabbiato o turbato al pensiero di un presidente donna, quando questa domanda era “nascosta” tra le altre: un numero considerevolmente più alto di quello che suggerivano i sondaggi tradizionali su candidati con nomi e cognomi.

Un altro dato piuttosto inquietante che emerge dal report di Reykjavík è che, globalmente, è improbabile che i maschi giovani appoggino le donne leader. Insomma, addio futuro migliore: viene sfatato il luogo comune che le nuove generazioni siano più progressiste e quindi inclini al cam- biamento, oltre che più naturalmente inclusive e abituate a considerare in maniera meno rigida i ruoli di genere.

 

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