I libri di NRW: Maledetta Sarajevo

Il long read di questa settimana è tratto da "Maledetta Sarajevo" di Francesco Battistini e Marzio G. Mian. Il racconto di una guerra dimenticata ma che ricorda l'Ucraina.

Adesso che la nostra mente è tutta rivolta all’Ucraina, ci siamo quasi dimenticati di un’altra guerra, quella nei Balcani, trent’anni fa, la prima in Europa dopo la Seconda Guerra Mondiale. A ricordarcelo ci pensano Francesco Battistini e Marzio G. Mian, inviati speciali del Corriere della Sera, in questo Maledetta Sarajevo pubblicato da Neri Pozza. Sottotitolo assai esplicativo, Viaggio nella Guerra dei trent’anni, il Vietnam d’Europa. Perché c’è più di una similitudine, soprattutto negli orrori, tra il conflitto che fece perdere l’innocenza agli Stati Uniti e questa guerra combattuta alle porte di casa nostra, dall’altra parte del Mar Adriatico. A Srebrenica i serbi compirono un genocidio contro i bosniaci musulmani accompagnato da un corollario degno di Adolf Hitler, lager, fucilazioni di massa, torture e stupri, fosse comuni e profughi in fuga. Il prologo di tutto quello che sarebbe successo nei decenni successivi e che ancora oggi accade, lo scontro tra Occidente e Islam, l’odio razziale e i nazionalismi che infestano l’Europa, fino alle grandi migrazioni di chi fugge dalla guerra e bussa all’Europa in cerca di asilo e di pace.Francesco Battistini e Marzio G. Mian che vissero ogni attimo di quella guerra in prima linea, raccontando ciò che vedevano dalle colonne del loro giornale, trent’anni dopo sono ritornati negli stessi luoghi incontrando i protagonisti di allora. Nelle pagine del loro libro rivivono quegli anni e ricordano l’ex ministro di Stato della Svezia Carl Bildt, lord David Owen che collaborò alla realizzazione di alcuni piani di pace in Bosnia che non ebbero seguito. E poi Carla del Ponte, pubblica accusa al Tribunale Internazionale dell’Aja per i crimini di guerra in Bosnia e il generale francese che comandava i Caschi Blu dell’Onu in fuga da Srebrenica. Francesco Battistini e Marzio G. Mian nel carcere di massima sicurezza dell’isola di Wight hanno raccolto anche la testimonianza di Radovan Karadžic´, l’ex Presidente della Repubblica Serba di Bosnia ed Erzegovina dal 1992 al 1996, condannato all’ergastolo per genocidio. Da queste fonti di prima mano emerge il racconto di una guerra che è già entrata nei libri di storia. Fabio PolettiFrancesco Battistini Marzio G. MianMaledetta SarajevoViaggio nella guerra dei trent’anni Il Vietnam d’Europa2022 Neri Pozza Editorepagine 400 euro 19 ebook euro 4,99

Per gentile concessione degli autori Francesco Battistini e Marzio G. Mian e dell’editore Neri Pozza pubblichiamo un estratto dal libro Maledetta Sarajevo.Saliamo in autobus fino a Montichiari, vicino a Brescia, dove hanno preparato un mega pranzo per tutte le famiglie. Ci dividono in piccoli gruppi, i sindaci prendono in consegna le famiglie destinate ai loro comuni. “Voi siete di Srebrenica? Allora, andate in montagna…” Finiamo a Cevo, mille abitanti a mille metri. C’è la banda a riceverci, pacchi di regali per tutti, ancora una tavola imbandita. Eravamo muti, noi lì nel lusso e papà chissà come se la passava, se aveva di che mangiare. Solo qualche mese prima, a Tešanj, la mamma faceva chilometri per andare a recuperare un po’ di farina sotto i bombardamenti… E ora eravamo nella bambagia, tra quella gente così buona. Ci sono rimasto tredici anni, a Cevo. Le prime sere i bambini venivano a guardarci dalla finestra, eravamo un’attrazione. Era stato un paese di partigiani, bruciato dai tedeschi, sempre di sinistra. Le stesse persone che ci hanno accolto, i miei amici, qualche anno fa hanno indetto un referendum per decidere se accogliere una famiglia di afghani, “chissà se sono come Irvin e suo fratello Emir, oppure se sono delinquenti” dicevano… La mamma? La mamma sta ancora a Cevo».«L’ultima volta che ho salutato mio marito, ho cercato d’imprimermi nella mente tutto di lui. Il suo sguardo, la camicia di jeans chiaro che indossava. Pensavamo che la guerra sarebbe finita in poche settimane e non capivo perché lasciarlo mi desse tanto dolore. Ora, invece, credo che soffrissi in quel modo perché sentivo che non l’avrei rivisto mai più. Almeno le ossa di mio fratello Mevko sono state trovate. Me le hanno consegnate in una busta. Ma di Muharem, mio marito, non ho più saputo nulla. Per tanto tempo ho sperato che fosse solo prigioniero, che prima o poi sarebbe riuscito a liberarsi. Ma sono passati troppi anni. Con la testa, ho smesso di sperare. Nel 1993, dopo mesi d’assedio, Srebrenica venne dichiarata area protetta dall’Onu, assieme a Tuzla, Žepa, Bihać e Goražde. Doveva essere per i bosniaci musulmani un luogo sicuro, protetto. Le cose andarono diversamente. Dopo un anno che eravamo a Cevo, siamo riusciti a metterci in contatto sfruttando la frequenza dei radioamatori: mio marito cercava di tranquillizzarmi, diceva che l’Europa non avrebbe permesso che succedesse qualcosa di brutto. So che in quei giorni di luglio del ’95 la mia vicina di casa lo ha visto salire su un camion di paramilitari serbo-bosniaci, so che ha fatto un cenno timido di saluto, come per invitare chi lo guardava a non preoccuparsi troppo. Ma non saprò mai che cos’ha passato, quanto ha sofferto, le domande che si sarà fatto. È da qualche parte, non altro che ossa. Le bare in cui finiscono sono leggere come fantasmi. Per chiudere davvero questo cerchio di dolore, avrei avuto bisogno di vedere il suo corpo morto» (Nadja Mujcić, Cevo, Brescia).«Era stato assunto dal battaglione olandese, come traduttore nella seconda base. Papà parlava abbastanza bene l’inglese. Lui e mio zio erano partiti per i boschi e quando sono arrivate le prime granate ha deciso di ritornare indietro, assieme a un suo vicino di casa: “Quel che succederà agli altri, che succeda anche a me” ha detto. Così mi è stato riferito. Forse poteva salvarsi, chissà. Ho saputo pure che stava con un gruppo di compaesani, poi uno dei paramilitari lo riconobbe, dai tempi in cui papà era attaccante nel Guber, avevano giocato contro. “Ehi, Muharem, come te la passi? Dai, alla svelta, sali su sul camion…” E lui è salito. Non è facile accettare una cosa simile… Mi hanno raccontato che nel ’94, quando Srebrenica era assediata e c’erano i mondiali di calcio negli Stati Uniti, tutti cercavano il segnale tv, ma era troppo debole in città. Così, assieme ad altri amici, televisore in spalla, passando tra le linee nemiche, mio papà saliva sul monte sopra Srebrenica per vedere le partite. Quelle più importanti, le ha viste in questo modo».Negli occhi di Irvin c’è tutto l’orgoglio per quella follia del padre. «Il coraggio di vivere e la voglia di restare persone integre sono la vera risposta all’aggressione» dice. Nella sua casa-capanna Irvin è scollegato dal mondo e per comunicare, o vedere qualche partita della serie A sullo schermo del cellulare, deve salire di altri cinquecento metri sul monte, magari col buio, nella neve, rischiando d’incontrare l’orso.In quell’inizio d’estate del ’95 i serbi stanno perdendo parecchio terreno. E i croati ne conquistano. Tudjman ha uccellato Milošević, s’è dimostrato giocatore più astuto: ha accantonato il suo odio per i musulmani e lanciato in Bosnia Erzegovina un’azione coordinata con Izetbegović e approvata dagli americani. Le forze di Mladić subiscono brutte sconfitte nella regione di Bihać, il morale è rasoterra. Da Belgrado a Pale, da Milošević passando per Karadžić e Mladić, sono tutti d’accordo di concentrare la battaglia su Srebrenica, di togliere di mezzo una volta per tutte quell’enclave di turchi dal territorio puro della Republika Srpska. Dovrebbe essere area demilitarizzata, ma Orić e i suoi miliziani islamici continuano a lanciare spedizioni nei villaggi serbi circostanti. Mladić è una belva, ha in odio il mondo intero da quando s’è suicidata la figlia Ana, nel ’94. E sa che il contingente olandese dell’Onu, a pro- tezione di Srebrenica, non vede l’ora di togliere le tende, ha poca voglia di rischiare la vita ed è notoriamente filoserbo. Carica i suoi, li incita alla soluzione finale, alla tv serba dice che è arrivata l’ora di vendicare torti secolari. Il bombardamento comincia il 6 luglio. A quel punto, entro il perimetro cittadino ci sono quarantamila persone, le munizioni sono finite e le forze musulmane di Orić a difesa dei civili hanno abbandonato la posizione. Inizia la fuga dei civili, verso i boschi e a ridosso dei compound Onu. Le richieste dei caschi blu olandesi per un intervento aereo sono ignorate più volte, si sentono isolati e sopraffatti. Man mano che i serbi avanza no, gli olandesi indietreggiano verso il loro campo principale di Potočari, assediato da circa venticinquemila civili che implorano protezione. Il 12 luglio Mladić si presenta a Potočari, mostrandosi bonario e paterno, accarezza i bambini davanti alla telecamera della tv serba: «Siate pazienti, chi vuole partire potrà farlo…» Appena la telecamera si spegne, ordina ai musulmani maschi di formare file ordinate. Stanno già caricando camion e pullman di civili, diretti in territorio sotto controllo bosgnacco, ma vi arriveranno solo donne e bambini. I caschi blu stanno a guardare, allontanano la folla, che ripara nei capannoni industriali vicini, dove finiranno di vivere. Non solo: il generale convoca il comandante olandese Thomas Karremans e il suo stato maggiore in un ambiente attiguo all’Hotel Fontana di Bratunac. Nella stanza hanno legato un maiale, Mladić propone un brindisi, stappa la bottiglia di šljivovica coi denti, augura lunga vita ai presenti. Un soldato estrae il coltello e lo infila nel collo del maiale, che lancia urla strazianti. «Così trattiamo i nostri nemici» dice Mladić al collega, ormai pallido e terrorizzato. In quelle ore e per i giorni successivi, i serbi fucilano migliaia di maschi nei magazzini e nelle scuole di Srebrenica, Bratunac e in tutta l’area. Rastrellano i fuggitivi nei boschi, lungo i sentieri del monte Kak, anche con le jeep sequestrate ai caschi blu. Molti s’impiccheranno ai faggi, per non finire nelle mani dei paramilitari. A lavoro fatto, e mentre le ruspe serbe scavano per sotterrare montagne di corpi, alle truppe Onu è permesso di lasciare l’enclave, sono salutate con cordialità e pacche sulle spalle dal Boia, che offre anche dei pacchettini regalo a Karremans e ai suoi ufficiali. Forse in cambio delle armi che questi sono costretti a consegnare ai serbi. I codardi olandesi se ne vanno a nuotare in Dalmazia, senza sapere d’essersi lasciati alle spalle un genocidio, e d’esserne complici.«Quando sono venuto per la sepoltura di mio zio, nel 2007, avevo deciso che Srebrenica era un capitolo chiuso della mia vita. Di far finta che non fosse successo niente…» Irvin in Italia ha studiato filosofia, si è occupato d’immigrati nelle ong, tra Nord Africa e Bruxelles. Il suo è stato un processo interiore sempre più radicale verso l’origine del pensiero razzista e dell’atto genocida. Si è occupato dello sterminio di rom e sinti, le più dimenticate tra le vit- time dell’Olocausto. Organizzava visite ad Auschwitz, è diventato mediatore culturale per la scolarizzazione dei bimbi rom in Italia. «È stato un modo di mettere me stesso con le spalle al muro e di riflettere sulla mia storia. Ma anche di capire che certe dinamiche, presenti qui trent’anni fa, riaffiorano in Europa. Non potevo più far finta di nulla, lasciare che Srebrenica morisse, diventando solo un’altra Auschwitz, perché allora vuol dire darla vinta a chi ha compiuto il genocidio. La miglior risposta al genocidio è il ritorno alla vita. Negli ultimi tempi, appena arrivato, mi tormentava un nuovo sogno. Era come se io e mio padre stessimo cercando d’incontrarci attraverso i sogni… Coraggiosamente, oserei dire. Siamo infatti consapevoli che alla fine del sogno moriremo entrambi. Ogni volta moriamo e resuscitiamo a oltranza, nonostante l’an- goscia dell’uccisione. Il sogno in cui coesisto con mio padre mi piace, a tratti appare poetico. Lui è vestito sempre uguale, indossa una camicia marrone chiaro con delle sottili linee bianche, ed è appoggiato alla staccionata della casa dei nonni. Poi il sogno si spezza. Anche se l’ho fatto tantissime volte, cambia sempre qualcosa, si prosciuga, come se diventasse via via più essenziale e veloce. È questo frantumarsi del sogno che mi ha spinto ad accelerare e a riprendere quel che è mio prima che sparisca. Mi chiedevo che senso avesse essere sopravvissuto, perché mia madre mi avesse salvato, perché mio padre fosse morto… E così ho ripreso la via di casa, la foresta mi chiamava, e non solo perché da qualche parte qui in giro ci sono le spoglie di mio padre. No, dovevo restituire a Srebrenica la mia fortuna d’essere stato tirato fuori dalla guerra per un pelo, d’aver avuto la possibilità di studiare in un Paese in pace. Che senso ha tutta questa mia fortuna, mi dicevo, se non la riporto a casa?»© 2022 Neri Pozza Editore, Vicenza