Le bad girl si trovano ovunque, pure in chiesa. Di sicuro pure in questo bel libro, La vita segreta delle ragazze di chiesa, scritto da Deesha Philyaw e pubblicato da SEM Editore. Deesha Philyaw è un’autrice afroamericana, editorialista e oratrice pubblica. La sua raccolta di racconti, The Secret Lives of Church Ladies, è stata finalista per il National Book Award 2020 nella narrativa e ha vinto il The Story Prize. Nel 2021 HBO ha acquistato i diritti del libro e sta preparando una serie televisiva. Il libro è una raccolta di nove racconti, dove protagoniste sono donne afroamericane in qualche modo legate alla chiesa ma qui viste nella loro intimità di donne libere ed emancipate, divise tra peccato e trasgressione, incenso e voluttà. In tre racconti le donne sono protagoniste di amori lesbici, dunque non accettati dalla chiesa, e per questo vissuti con tutto il peso che i precetti religiosi hanno sulle comunità nere. Ma i desideri si sa, non possono essere soffocati nemmeno se sei una pia donna. Come dice la protagonista del racconto Istruzioni per mariti cristiani sposati: «Io erigo monumenti ai miei impulsi e ai miei desideri sulla schiena di uomini come te». Sesso, amore, tradimento e solitudine sono gli ingredienti, talvolta piccanti, di questa raccolta di racconti. Nulla viene risparmiato, nemmeno la dubbia integrità dei ministri di culto, come quello che straborda nelle pagine di Sbriciolata alle pesche, dove un pastore per decenni tradirà la moglie con la parrocchiana che ogni lunedì gli prepara il dolce alla frutta, invitante come la mela del peccato originale. Tutto davanti agli occhi della puccola Olivia, che a sei anni crede che il pastore Neely sia addirittura Dio, per poi ricredersi oramai adulta qualche racconto più avanti: «Sono cresciuta vedendo mia madre che si accontentava delle briciole e degli avanzi della tavola di un’altra donna e mi sono giurata di non fare mai una cosa simile. Ma eccomi qua a strappar quello che posso, a leccare gli angoli». Fabio Poletti
Deesha Philyaw La vita segreta delle ragazze di chiesa traduzione di Maria Baiocchi e Anna Tagliavini 2023 SEM pagine 240 euro 17Per gentile concessione dell’autrice Deesha Philyaw e dell’editore SEM pubblichiamo un estratto dal libro La vita segreta delle ragazze di chiesa.
Sbriciolata alle pesche La sbriciolata alle pesche di mia madre era talmente buona da indurre Dio in persona a mettere le corna alla moglie. A cinque anni tallonavo la mamma, in cucina, e la osservavo: abbastanza vicina da aver memorizzato, prima di compierne sei, tutti gli ingredienti e tutti i passaggi. Ma non tanto da farmi sgridare perché le stavo tra i piedi. E non abbastanza da vedere le dosi esatte. La ricetta non l’ha mai scritta. Senza bisogno di farmelo dire, avevo capito che non dovevo fare domande sul dolce, né su Dio. Avevo capito che non dovevo dire una parola su di lui, che tutti i lunedì si chinava sul tavolo della nostra cucina a divorare una porzione di dolce dopo l’altra per poi sparire nella camera che io dividevo con la mamma. Diventai un’apprendista silenziosa di mia madre e del modo in cui preparava la sbriciolata. Anche da grande, quando non credevo più che Dio e il reverendo Troy Neely fossero una sola persona, continuai ad aspirare alla perfezione della dolcezza e della consistenza del crumble di mia madre. Che a me riscaldava i pasti pronti da consumare davanti alla tv, mentre infornava la sbriciolata con le pesche fresche tutti i lunedì, il suo giorno libero al diner dove faceva la cameriera. La domenica era il suo sabato, diceva sempre, e il lunedì la sua domenica. Nessuno dei suoi giorni era per me, ecco quel che sapevo io. E per tanti di quei lunedì della mia infanzia, a intermittenza, Dio (nel mio cervello di bambina) passava da noi e si spazzolava tutta una teglia 20 per 20 di sbriciolata. Mia madre non ne mangiava mai, diceva che le pesche non le piacevano. A me, mi faceva sgombrare dalla cucina prima che Dio potesse offrirmene un pezzo, ma dubitavo che lui me l’avrebbe offerto anche se fossi stata seduta lì di fianco. Dio era vecchio e grasso, come un Babbo Natale nero, e immagino che il crumble di pesche di mia madre contribuisse al suo girovita. Certi lunedì Dio arrivava e se ne andava dopo cena, mentre io me ne stavo raggomitolata sul divano del salotto a guardare La casa nella prateria. Altre volte mia madre e Dio erano già in camera quando tornavo da scuola. Appena entravo in casa sentivo gemiti e tonfi, come di un’asse di legno contro il muro. Allora mi richiudevo piano la porta alle spalle e mi avvicinavo in punta di piedi in corridoio per ascoltare fuori dalla camera da letto. «Oh, Dio! Dio! Oddio!» gridava mia madre. E anche Dio sentivo, con quella voce bassa e cavernosa, che diceva «Sì, sì, sì!». Ancora prima che iniziasse a venire da noi il lunedì, avevo sospettato che il pastore Neely, il ministro della chiesa battista Hope in Christ, fosse Dio. Era grosso, nero e massiccio, proprio come immaginavo fosse Dio. La prima poesia di Pasqua che avevo imparato quando andavo ancora all’asilo, durante il catechismo della domenica, era “Gesù è il figlio di Dio”, e non mi era sembrato strano che il Dio Nero potesse avere un figlio biondo con gli occhi azzurri. Il pastore Neely era molto scuro, ma sua moglie era chiara e il loro figlio, Trevor, che aveva più o meno la mia età, aveva gli occhi grigi e non era molto più scuro del Gesù che stava appeso dapper- tutto in chiesa. Per di più, verso la metà della funzione domenicale il pastore Neely, sua moglie e Trevor si piazzavano davanti all’altare a raccogliere le offerte della congregazione mentre il coro cantava “Ti voglio bene (oggi, Signore)”. Insomma, mi era stato facile dedurre che il pastore Neely fosse il “Signore”. Le grida appassionate di mia madre, dietro la porta della camera da letto, lo confermavano. Mi piaceva molto tutto il teatrino dei sermoni del pastore Neely, la domenica. Tuonava e ruggiva dal pulpito, rivolto alla congregazione, a proposito dell’ira e del giudizio di Dio. E quando intonava le lodi della sua bontà e misericordia, si circondava il petto con le braccia e si cullava. Poi scendeva dal pulpito e passava tra i banchi della chiesa, per portarci, tutto energico ed eccitato, quella che lui chiamava la Buona Novella. Per essere così grosso, si muoveva con un’agilità e una grazia sorprendenti. Quando ritornava verso l’altare quasi tutte le donne e alcuni degli uomini balzavano in piedi ondeggiando e acclamando. Mia madre, no. Lei restava seduta, l’espressione indecifrabile come al solito. Il pastore e la First Lady mi ricordavano Stanlio e Ollio. Lui massiccio e corpulento, lei secca e allampanata come gli omini stilizzati nei disegni di un bambino. Alla colletta lei presenziava rigida e diritta come un fuso. I lisci capelli castani le scendevano sulle spalle e io credevo fosse bianca, l’ho creduto per anni finché non l’ho vista bene da vicino per la prima volta, sulla soglia di casa sua. Come molte delle buone signore della chiesa, la First Lady portava un cappello a tesa larga, che nel suo caso si abbassava fin quasi a nasconderle gli occhi. Ma io riuscivo a vederli abbastanza da capire che non aveva occhi grandi e supplici come mia madre, che non era bella come mia madre. Non aveva il suo seno rotondo, i fianchi pieni del genere che eccitava gli sconosciuti per strada. Uomini che mia madre definiva “luride teste di cazzo” quando le dicevano porcherie al nostro passaggio. © 2020 Deesha Philyaw © 2023 Società Editrice Milanese