Raccontare chi è stato Thomas Edward Lawrence non è facile. Nell’immaginario collettivo è l’intrepido difensore in tunica bianca degli arabi, interpretato da Peter O’Toole, nel kolossal Lawrence d’Arabia, diretto nel 1962 da David Lean e premiato con ben sette Oscar, dove però la sua ostentata omosessualità non viene minimamente menzionata. Il tenente colonnello Thomas Edward Lawrence, nato a Tremadog in Galles il 16 agosto 1888 e morto a Wareham nel Dorset il 19 maggio 1935, è stato un agente segreto, militare, archeologo e scrittore britannico. Conosciuto con lo pseudonimo di Lawrence T. d’Arabia, ebbe diversi altri alias, tra cui quelli di T. E. Smith, T. E. Shaw e John Hume Ross. Ricordato per essere stato uno dei capi della rivolta araba durante la prima guerra mondiale, per la sua attività militare fu decorato con la Legion d’onore. Il suo capolavoro I sette pilastri della saggezza, ritorna alle stampe nella sua versione originale, La rivolta araba, grazie all’editore Mattioli 1888. Questa stesura, conservata presso la biblioteca dell’Università del Texas, risale all’incirca al 1920. Lawrence aveva aiutato gli Arabi in un’impresa memorabile, culminata nella conquista di Damasco. Deluso dalla diplomazia dei vincitori, Lawrence decise di scrivere un’epica che fosse, al tempo stesso, racconto di guerra, atto d’amore per un popolo e drammatica confessione del fallimento di un grande sogno. Cominciò quindi da questa prima stesura, scarna e succinta rispetto ai Sette pilastri, ma con la stessa capacità poetica e introspettiva che trascende gli eventi e diventa un’autobiografia epica. Lawrence aveva preso minuziosi appunti nel corso degli avvenimenti in cui era stato coinvolto nel corso della rivolta araba. Iniziò a lavorare alla narrazione nella prima metà del 1919, mentre era a Parigi per la Conferenza di Pace e, nella tarda estate, quando tornò in Egitto. Entro il dicembre 1919 egli aveva già realizzato una minuta della maggior parte dei dieci libri che compongono I sette pilastri della saggezza, ma perse tutto, a parte l’introduzione e gli ultimi due libri, smarrendo il suo bagaglio mentre cambiava treno alla stazione di Reading in Inghilterra. Negli anni successivi scrisse diverse versioni del suo libro ricostruendo il testo a memoria. In un capitolo poi cancellato dei Sette pilastri della saggezza, che è riapparso nel 2022 in occasione di un’asta tenutasi in Inghilterra, Lawrence rivela di provare “bitter shame”, amara vergogna per il trattamento ricevuto dagli arabi suoi amici e alleati, alla fine della guerra, da parte del Regno Unito: «Per il mio lavoro sul fronte arabo avevo deciso di non accettare nulla. Il governo indusse gli arabi a combattere per noi con precise promesse di autogoverno in seguito. Gli arabi credono nelle persone, non nelle istituzioni. Hanno visto in me un agente libero del governo britannico e mi hanno chiesto la garanzia delle sue promesse scritte. Così dovetti unirmi alla cospirazione e, per quel che valeva la mia parola, assicurai agli uomini la loro ricompensa. Nei nostri due anni di sodalizio si sono abituati a credere in me e a pensare che il mio governo, come me, fosse sincero. Con questa speranza hanno fatto delle belle cose ma, ovviamente, invece di essere orgoglioso di ciò che abbiamo fatto insieme, continuo a vergognarmi amaramente». Dopo aver lasciato la vita militare con un certo disagio, Lawrence si ritirò nella campagna inglese. Dove perse la vita nel maggio 1935, in un incidente stradale le cui cause non sono mai state chiarite e anzi hanno lasciato molti dubbi, mentre in moto percorreva una strada di campagna. Fabio Poletti
Thomas Edward Lawrence
La rivolta araba
traduzione e cura Fabrizio Bagatti
2024 Mattioli 1888
pagine 136 euro 18
Per gentile concessione dell’editore Mattioli 1888 pubblichiamo un estratto dal libro La rivolta araba
Cammelli alla carica
luglio 1917
Gli ingegneri turchi che avevano fatto esplodere i pozzi di Bair riferirono al loro governo che ogni fonte d’acqua era completamente distrutta. Si rifiutarono quindi di dare credito alle notizie sulla nostra presenza in loco. Inoltre, avevano fatto saltare tutti i pozzi di Jefer ed erano sicuri che il nostro percorso verso Maan fosse doppiamente bloccato. Avevamo trovato il loro lavoro a Nair molto approssimativo. Avevano trascurato il pozzo a nord e quello in rovina non era irrepara- bile. Di conseguenza, speravamo che Jefer fosse ancora aperto per noi. Anche Dhaifallah, dei Motalga, il nostro amico segreto, inviò un messaggio a Mohammed el Dheilan, per dire che era stato presente all’esplosione del pozzo dei Re a Jefer, e che le cariche di dinamite erano state tutte collocate nella parte superiore. Secondo lui non era stato riempito, ma le lastre più in alto in pietra erano state fatte crollare all’interno e si erano incastrate tra loro. Le avremmo trovate ammucchiate sulla bocca del pozzo con il fondo ancora intatto. Così la mattina del 29 giugno partimmo da Bair con buone speranze.
Quel giorno viaggiammo e dormimmo la notte nella grande pianura di Jefer. Il giorno dopo, a mezzodì, raggiungemmo i pozzi, che sembravano in pessime condizioni. Erano tutti distrutti, apparentemente non riparabili e cominciammo a chiederci come avremmo potuto bere. Alla fine, però, ci radunammo intorno al pozzo del Re (proprietà della famiglia di Auda) e lo sondammo con un mazzuolo da tenda. Il terreno suonava vuoto e chiedemmo ad alcuni volontari di scavare per accertarsene. Alcuni Ageyl, guidati da Mirzugi, un cammelliere dei Bugum di Nasir, si fecero avanti e iniziarono a scavare con gli strumenti che avevamo. Gli altri formarono un cerchio intorno a loro, li guardavano lavorare e cantavano, promettendo molto oro se avessero trovato l’acqua.
Era un lavoro infuocato per un mezzogiorno d’estate, in quel luogo bianco e accecante, ma necessario, perché se non fosse andato a buon fine avremmo dovuto percorrere quasi cento chilometri nella notte per raggiungere il pozzo successivo. La pianura di Jefer è di puro fango duro e liscio come il palmo di una mano, bianco di sale, e si estende per cinquanta chilometri… ma era facile scavare, perché non c’erano pietre e l’esplosione che aveva spostato la muratura aveva spaccato e fatto crollare il terreno intorno.
Mentre scavavano e buttavano fuori la terra, l’imboccatura del pozzo si ergeva come una torre rotonda al centro della buca. Questo dimostrava che il danno era superficiale e cominciammo a rimuovere con molta attenzione la sommità crollata del mucchio. Alcune pietre erano difficili da spostare, perché si erano incastrate nella caduta; ma questo era un ottimo segno e ci impegnammo ancora di più. Prima del tramonto si accorsero che non c’era più terra, che gli interstizi tra i blocchi erano liberi e che si sentivano i frammenti di fango scivolati giù schizzare molti metri più in basso. Mezz’ora dopo si sentì un rumore e un tonfo, seguito da forti spruzzi e da urla. Corremmo a vedere cosa fosse successo e trovammo il pozzo aperto, non più un cilindro, ma una grande fossa a forma di bottiglia, lungo sei metri: il fondo era nero d’acqua e bianco di spruzzi dove l’ultimo Ageyl, che stava togliendo le pietre bloccate quando l’ultima aveva ceduto, si stava dando da fare per tenere la testa fuori dall’acqua.
Rimasero tutti lì in piedi e risero a lungo, mentre Mirzugi gli calava un cappio di corda; lo tirammo fuori, tutto inzuppato e spaventato, ma del tutto illeso. Premiammo e rifocillammo gli scavatori e abbeverammo i nostri cammelli per tutta la notte, mentre un secondo gruppo di Ageyl, con un lungo coro, ricostruiva l’imboccatura del pozzo con un muro di fango e pietre alto due metri e mezzo. All’alba la terra vi venne rimessa a posto intorno e il pozzo si ergeva rinnovato sulla superficie del deserto, pienamente agibile, in apparenza, come lo era prima. Solo che l’acqua era poca. Attingemmo per tutte le ventiquattro ore e la tirammo su fino al fango, e alcuni dei nostri cammelli non erano ancora del tutto soddisfatti.
Da Jefer preparammo la nostra azione. I cavalieri si spinsero avanti fino alle tende dei Dhumaniyeh a Batra, per condurre l’attacco promesso contro la postazione turca di Fuweila, che copriva la grande sorgente di Aba el Lissan e il bordo dell’altopiano, dove la strada per Akaba scende a picco sulla pianura di Guweira. Noi saremmo rimasti a Jefer fino al mattino del primo [luglio], quando i messaggeri sarebbero dovuti tornare con notizie sull’andamento dell’attacco. Era piuttosto piacevole aspettare sapendo che, per una volta, qualcun altro avrebbe combattuto; era anche divertente, perché eravamo in vista di Maan, la città della guarnigione turca, durante quei pochi minuti al giorno, mattina e sera, in cui il miraggio cessava e si potevano usare i binocoli. Eppure, eravamo accampati lì in tutta sicurezza, passeggiando e ammirando il nostro nuovo pozzo, visto che i turchi confidavano che i loro ingegneri avessero distrutto l’approvvigionamento. Rimasi tutto il giorno sdraiato sotto alcuni cespugli, molto pigro, fingendo di dormire, con una delle mie ampie maniche di seta tirata sul viso come un velo contro le mosche. Auda stava seduto e par- lava come un fiume, raccontando in piena forma le sue storie migliori. Alla fine, lo rimproverai sorridendo perché parlava troppo e faceva troppo poco. Ricambiò il sorriso in attesa del lavoro che sarebbe seguito.
Titolo originale The Arab Revolt
© 2024, Mattioli 1885