Genocidio, la parola coniata dal giurista polacco ed ebreo Raphael Lemkin per raccontare lo sterminio di 6 milioni di ebrei, continua ad essere tragicamente attuale. Sappiamo degli armeni massacrati dai turchi nel 1915. O di quello in Sudan nel 1994, quando gli hutu massacrarono la minoranza tutsi a colpi di machete. Ma ci sono altri genocidi. Come quello degli hazara in Afghanistan, massacrati a milioni dai talebani e dai pashtun fin dalla fine dell’Ottocento. O, molto più recente, dieci anni fa, quello degli yazidi in Iraq. Diffusi fra Iraq, Siria, Iran, Turchia, Armenia e Georgia, gli yazidi sono una piccola popolazione che, seppur facente parte per lingua e tradizione della storia e del mondo curdo, ha alcuni tratti specifici che la distinguono. Il 3 agosto 2014 i combattenti dello Stato Islamico dell’Iraq occupano il Sinjar, regione nel Nord dell’Iraq a meno di 15 chilometri dal confine con la Siria. Inizia così il genocidio yazida: per gli uomini la scelta è fra la morte e la conversione, mentre per le donne non esiste scelta: verranno deportate, violentate, ridotte in schiavitù e vendute. Per raccontare la loro storia in questo La luce di Şingal, pubblicato dall’editore People, Sara Lucaroni è andata sul posto, traendone un reportage che ci impone di non chiudere gli occhi di fronte a uno sterminio, a pochi chilometri da casa nostra, avvenuto appena ieri. Sara Lucaroni, giornalista e scrittrice, è laureata in Filosofia a Firenze. Ha firmato reportage da Iraq, Siria e Turchia e inchieste per L’Espresso, Avvenire, Domani, Speciale TG1, SkyTG24. Ha condotto il tg di Tv2000 e lavorato come inviata per i programmi di attualità Fuori Onda su La7 e M di Michele Santoro, in onda su Rai3. Scrive di diritti, legalità, antifascismo. Ha vinto, tra gli altri, il premio Carlo Azeglio Ciampi – Schiena Dritta, il premio Giornalisti del Mediterraneo e il premio OMCOM Osservatorio Mediterraneo Criminalità Organizzata della Fondazione Antonino Caponnetto. Ha pubblicato Il buio sotto la divisa. Morti misteriose tra i servitori dello Stato (2021) e Sempre lui. Perché Mussolini non muore mai (2022). Il suo reportage ha inizio nell’ottobre 2014 quando le arriva una telefonata dalla montagna di Şingal, al confine tra Turchia, Siria e Iraq. A chiamare è un combattente yazida, una piccola comunità decimata dalla furia dell’Isis, l’organizzazione terroristica che di lì a poco avrebbe colpito anche l’Europa con una serie di sanguinosi attentati. Mentre migliaia di donne sono scomparse, rapite per diventare schiave, e quasi mezzo milione di sfollati fugge dalle proprie case per mettersi in salvo, inizia il viaggio di questa giovane giornalista che da sola decide di raggiungere quelle terre ancestrali per raccontare la tragedia di un popolo fino ad allora sconosciuto e per capire il male che porta con sé ogni conflitto. Fabio Poletti

Sara Lucaroni
La luce di Şingal
Viaggio nel genocidio degli Yazidi
2024 People
pagine 176 euro 16

Per gentile concessione dell’autrice Sara Lucaroni e dell’editore People pubblichiamo un estratto dal libro La luce di Şingal

La folla viene smistata: le donne e i bambini al primo piano e gli uomini coi ragazzi di sotto e nel cortile interno, con- trollati da circa quattordici miliziani sulle scale e nei corridoi, a separarli. L’ultima comunità ancora intera della piana, in mezzo al 74esimo genocidio, è morta lì, con gli ultimi sguardi bui e la disperazione del sentirsi scindere e spezzare, su quelle scale.
«I vostri mariti e i vostri figli li rivedrete più tardi sulla montagna» mentono alle donne gli uomini Abu Hamza. E il comandante avrebbe esclamato con rabbia: «Perché vi ostinate a vivere come nell’età dell’ignoranza, l’era preislamica?». Sono già stati requisiti oggetti preziosi, denaro, vestiti. Qualcuno continua ancora a ripetersi: «Questo è solo il prezzo da pagare per essere spediti sani e salvi sulle alture».
Sono le undici. Le donne cercano di vedere cosa succede dalle inferriate alle finestre. Le grida e il vociare vengono zittiti regolarmente mentre anche a loro viene strappato via ogni oggetto di valore, cellulari e documenti compresi.
«Centinaia di uomini li hanno caricati e portati via, in direzione della città di Şingal. Li hanno ammazzati. Hanno preso anche ragazzi dai dodici anni in su» spiega Nayef Jasso. È successo che venissero scelti controllando loro i peli sotto le ascelle. La loro assenza era la prova che non avevano raggiunto la pubertà, erano ancora malleabili, potevano essere indottrinati ed entrare nelle fila delle nuove milizie.
A gruppi di venti e anche più, schiacciati sul cassone di camioncini e pick-up, i maschi di Kocho sono stati portati via seguendo varie direzioni per brevi tragitti, al termine dei quali, in ginocchio, accovacciati o in piedi, in fila, di spalle, sono stati fotografati e, al grido «Allah è grande», trucidati da raffiche di mitragliatrice, in mezzo a nuvole di polvere. Plotoni di esecuzione.
Le donne hanno sentito distintamente gli spari e hanno gridato come all’unisono. Sono arrivati da uno spiazzo, da dietro una stradina, dai primi campi verso la montagna, poco dietro il muro delle ultime case, da una fattoria. Da diciassette luoghi diversi. Un bulldozer ha ammucchiato i corpi e ricoperto tutto con un po’ di terra. Sarebbero rimasti lì per cinque anni.
«Della città hanno fatto un cimitero. Qualcuno, ferito, è scappato, nonostante avessero sparato più raffiche dentro la fossa comune. È rimasto lì dentro, insieme ai morti e a chi si lamentava per le ferite, sotto la terra, e poi è fuggito per i campi. Sono diciannove quelli arrivati qui a Duhok. Le donne giovani le hanno portate a Mosul, le meno giovani e quelle con figli a Tal Afar. Le donne adulte le hanno ammazzate tutte, dentro la città di Şingal. Gli uomini uccisi sono 380, le donne 80. Le giovani e i bambini portati via, circa 800». La città secondo Nayf Jasso avrebbe contato in quel periodo 1.600 persone, 1.200 delle quali sono state prede o vittime del Daesh.
Eccole, le donne. A sorvegliarle avevano lasciato il capovillaggio, prima di ucciderlo. Svuotato il piano terra e il cortile da quel che doveva essere eliminato, sono state fatte scendere: un viavai di macchine e furgoni era già pronto fuori per portarle altrove. Prima selezione: via bambine e ragazze dai tredici ai sedici anni, separate subito dalle madri, dalle sorelle maggiori e dai fratellini. Le altre, coi figli e coi ragazzi sopravvissuti, caricate sui cassoni dei pick-up dirette verso una scuola a Solagh, il Solagh Technical Institute, poco fuori Şingal. Raccontano che la città, ora abitata dai soli arabi sunniti, abbia visto passare indifferente i furgoni carichi di deportate in lacrime: traffico, ristoranti, market aperti, gente sui marciapiedi a godersi il fresco della sera senza battere ciglio. Una volta arrivate, una volta tolti a tutte i veli che per tradizione portano sui capelli, c’è stata una nuova divisione, tra suppliche, moti di orgoglio e abbracci interrotti a forza: donne sposate con i figli più piccoli separate da quelle non sposate, raggruppate insieme ai ragazzi sopravvissuti.
Il 16 agosto nel cortile della scuola vengono uccise le donne anziane. Tutte le altre sono già a Tal Afar e Mosul, imbarcate durante la notte in grandi autobus bianchi, quelli con cui si va in gita ai santuari o nelle grandi città.

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