Oggi per placare le nostre coscienze usiamo il termine expat, da espatriati. Fino agli Anni Sessanta c’era solo una parola per spiegare chi sono le persone che lasciano il loro Paese, in cerca di una vita migliore: migranti. La differenza, tutta nella nostra testa, vuole che gli expat siano più agiati, con un lavoro sicuro, piuttosto dei migranti alla deriva e non solo in senso metaforico. Quella che racconta Andrea Cantone, insegnante col dono della scrittura e una famiglia che lo ha ispirato, è una storia vera. Una come tante di migrazioni verso l’Africa negli Anni Trenta e Quaranta del secolo scorso, quando il “continente nero”, ma non solo le colonie dell’Italia fascista che sognava l’impero, aveva un fascino tutto particolare nell’offrire una seconda occasione a chi non aveva saputo cogliere la prima. La luce dell’Equatore, pubblicata dalle Edizione Effetto, è la storia vera di uno zio dell’autore che, come tanti abitanti di Roasio in provincia di Vercelli, un bel giorno decise di lasciare tutto per andare in Nigeria. Sulla base di vecchi diari e di fotografie in bianco e nero, trovate a casa dei nonni, Andrea Cantone ricostruisce la vicenda dello zio. Il racconto che ne esce è la fotografia di un’epoca, di un’Italia che va stretta a molti, di un continente, in questo caso un Paese, la Nigeria, che attraeva molti per un fascino esotico che faceva presa su chi pensava di essere più esploratore che migrante, più avventuroso che costretto dalla necessità. Un sentimento molto lontano dalla voglia di conquista di un regime che, cantando Faccetta nera, di lì a poco sarebbe andato a schiantarsi. Fabio Poletti Andrea Cantone La luce dell’Equatore Una storia africana 2022 Edizioni Effetto pagine 400 euro 19 ebook euro 8,99
Per gentile concessione dell’autore Andrea Cantone e delle Edizioni Effetto pubblichiamo un estratto dal libro La luce dell’Equatore.
Ore 18:50. Casa della famiglia Testa. «Quindi è sicuro? Parti davvero?» «Sì, mamma» disse Alessandro, mentre sistemava le ultime cose nella valigia di cartone appoggiata sul letto della stanza che fino a qualche anno prima divideva con i fratelli. «Ho sperato fino all’ultimo che cambiassi idea. Oggi è anche venerdì, sai che nella nostra famiglia non si fa nulla di venerdì. Neanche il bucato. Porta male» ribatté con un sorriso teso, stampato sul viso e gli occhi lucidi. Rosa, madre di Alessandro, dei due maschi più grandi e dell’ultima figlia Maria, stava perdendo ogni speranza di riuscire a tenere unita la sua famiglia. Il maggiore, Pietro, era stato il primo a partire per l’Africa (precisamente per la Costa d’Oro); erano passati ormai otto anni e da due non ricevevano nessuna notizia. L’ultimo avvistamento era stato nei pressi di un villaggio al confine della Foresta Equatoriale. Stava lavorando per una ditta bergamasca che costruiva ferrovie. Era uscito dal campo all’alba, per parlare con i nativi perché la traccia della linea era prevista nei pressi di un villaggio di contadini indigeni. Il suo compito era di persuaderli a spostarsi, o a convincere gli adulti a lavorare come manovali al progetto con la promessa di guadagno e progresso. Non aveva mai fatto ritorno al campo base. Le ricerche erano andate avanti per giorni, gli indigeni interrogati avevano detto che da loro non era mai arrivato, e non c’era modo di capire se fosse la verità o meno. In fatto di unione e omertà, nei confronti dell’uomo bianco, i clan africani sono più chiusi della mafia siciliana. Il dubbio rimaneva, sia nei suoi colleghi, sia nel cuore della sua famiglia. Era vivo? Dove era andato? Era stato ucciso da qualche animale durante il tragitto? O erano stati gli stessi indigeni a metterlo a tacere perché contrari al progetto della ferrovia? La ditta per la quale lavorava Pietro se ne era fatta ormai una ragione. Sua madre, invece, non ci sarebbe mai riuscita. Ogni giorno apriva la porta della cucina, che conduceva nell’aia, sperando di vederlo seduto sotto l’albero a mungere le capre di buon mattino, come gli era sempre piaciuto fare. Ora le capre erano munte da Maria, eppure per Rosa non era la stessa cosa. Non lo avrebbe mai detto a nessuno, ma il latte, in casa Testa, per lei non avrebbe più avuto lo stesso sapore. Anche il secondo figlio, Carlo, era in Africa ormai da più di due anni. Lui però era sbarcato in Nigeria e, per il momento, si avevano costantemente sue notizie. «Carlo, lo hai sentito? Vi siete scritti? Sa che vuoi andare a lavorare con lui?» chiese Rosa, uscendo dai suoi pensieri e riprendendo il filo del discorso. «No, mamma, non gliel’ho detto. Non sa che sto partendo, ma stai tranquilla: andrà tutto bene» rispose Alessandro senza guardarla negli occhi. «Come no? Perché non vuoi farglielo sapere?» «Perché mi direbbe di non andare, proprio come stai facendo tu adesso. Mi direbbe che, essendo l’unico figlio maschio, ho il dovere di stare a casa per portare avanti la fattoria di famiglia. Ma io non voglio, mamma. Io voglio prendere quella nave domani!» disse finalmente alzando la testa per sfidare lo sguardo umido della madre. «Non posso perdere anche te, Alessandro.» «Non mi perderai» la rassicurò con tono impostato, ma triste. Era consapevole di avere appena mentito a sua madre. Solo in rari momenti lo aveva fatto: come quella volta, molti anni prima, quando invece di andare a messa la Domenica delle Palme per prendere l’ulivo benedetto, era andato al fiume a pescare con alcuni amici. Avevano poi “preso in prestito” l’ulivo dal cesto di vimini appoggiato sul tavolo, entrando di nascosto dalla porta sul retro della sacrestia. Era una delle cose che non gli piaceva per nulla fare: mentire, s’intende. Ma ora la situazione lo richiedeva, di nuovo. Lui partiva e, nella sua mente, l’idea era di non tornare più, ma non poteva dirlo a una madre che aveva già visto andare via due figli. Alessandro si trovava in una di quelle occasioni in cui le scelte sono davvero poche, le devi prendere al volo e di solito capita che: a) scartando la prima, quella sicuramente assurda; b) la seconda, quella teoricamente sbagliata; c) la terza, che praticamente non può essere esatta; d) ti rimane solo quella che sei costretto a prendere. «Non mi perderai.» © Edizioni Effetto