Siamo in guerra. E non è una frase detta a caso per ricordarci che a poche migliaia di chilometri da qui gli ucraini si stanno difendendo dall’aggressione russa. Noi europei siamo proprio in guerra, da qualche decennio almeno, contro i migranti che – come dice qualche politico, pure nostrano, non a caso – ci «stanno invadendo». Le parole di circostanza, che diventano commosse quando i morti sono davvero troppi, sono appunto parole. Quello che conta è la guerra che abbiamo dichiarato, unilateralmente, contro quella metà del mondo costretta a scappare dalla fame, dalla siccità o dalle bombe. Non a caso qui in Europa, dove gli stati litigano su quale sia il mondo migliore per affrontare questa guerra, si parla più di difesa dei confini che non di accoglienza. Quei confini, seimila chilometri in tutto, tra il Mediterraneo e i Balcani, le due porte d’ingresso in Europa, il reporter Maurizio Pagliassotti se li è fatti tutti. E alla fine ne è uscito un libro, La guerra invisibile, pubblicato da Einaudi, che è appunto un diario di guerra. Ne pubblichiamo un estratto, quello più significativo di questi tempi. Dove si parla dei profughi ucraini che in Europa piacciono più di quelli siriani. Anche se vai a vedere come può finire con questa guerra che doveva durare due mesi e c’era la fila di chi accoglieva i profughi, e che va avanti invece da quindici e c’è già chi di Ucraina e di ucraini, figuriamoci se profughi, non ne può più. Maurizio Pagliassotti, reporter, ha collaborato con diverse testate, tra cui «Diario», «Liberazione», «il manifesto» e «Domani». Nel 2019 ha pubblicato, con Bollati Boringhieri, un reportage dal titolo Ancora dodici chilometri. Migranti in fuga sulla rotta alpina.
In questo La guerra invisibile, Maurizio Pagliassotti allarga l’orizzonte: dalla rotta alpina italo-francese al confine turco-iraniano: va così alla scoperta dell’altro fronte di guerra interno, tra Europa e Asia minore: quello contro i migranti. Un fronte di lunga durata, ben più di quello ucraino, ma molto più nascosto o del tutto invisibile. Una guerra vittoriosa perché il nemico, il migrante, alla fine è battuto, ridotto a vivere nascosto e braccato in piccoli gruppi lungo la rotta dei Balcani o in Turchia. Alla fine ne esce un libro per raccontare aspirazioni, astuzie, sconforti e per dare un’idea molto da vicino di cosa sia il cuore oscuro dell’Europa. Un’idea sconosciuta a molti attori del dibattito pubblico e politico, che parlano e twittano sulla base di slogan e luoghi comuni. Fabio Poletti Maurizio Pagliassotti La guerra invisibile Un viaggio sul fronte dell’odio contro i migranti 2023 Einaudi pagine 256 euro 18Per gentile concessione dell’autore Maurizio Pagluassotti e dell’editore Einaudi pubblichiamo un estratto dal libro La guerra invisibile.
Ucraini sí, siriani no I siriani profughi in Turchia in questi giorni mi mandano messaggi cosí: «Ma secondo te se Putin bombarda l’Ucraina significa che ha meno bombe a disposizione per noi?» Sono arrivato a Przemyśl, Polonia, pochi chilometri a ovest del confine con l’Ucraina e ho visto moltitudini di esseri umani alla ricerca di una via di fuga mentre altri erano pronti a spendersi in qualche modo per fare qualcosa. È un giorno freddo e lugubre quello in cui entro in questa storia, il cielo è un piombo carico di angoscia ma fino a pochi metri dalla vecchia stazione tutto appare normale e sereno. Gli abitanti di questa località polacca di media grandezza vivono con apparente normalità l’apocalisse alle porte, e la guerra appare come un miraggio che erompe dai molti schermi che ci assediano. Un piccolo mercato di fiori di plastica è attraversato da uomini e donne, intenti a comprare regali, indifferenti a quello che accade nella loro città che a me pare piantata nel centro del tempo mentre per loro è solo un giorno come tanti. La stazione, costruita nel 1895, è occupata da gente accampata ovunque tranne che nell’elegante bar con i velluti e gli af- freschi: quello è occupato dai giornalisti che seguono il conflitto, avventurieri, trafficanti, turisti di guerra, uomini e donne partiti «per dare un mano», politici, mercenari: un’umanità in arrivo da tutto il mondo, vogliosa ed eccitata. Ad alcuni della guerra non importa, gli piace essere qui e nulla piú, si vede che non starebbero meglio in nessun altro posto del mondo. I Martini dry serviti dalle cameriere si susseguono e la tragedia prende le forme della festa. «Ti sono mancato?» chiede il giornalista con i capelli grigi alla giovane cameriera locale che non lo degna di uno sguardo. Il poveruomo è ridicolo, ma non lo sa. L’eccitazione si sente nell’aria, è un sentimento di piacere malcelato nel vedere il mondo che finalmente brucia: si sente l’odore del sangue e delle lacrime tra i corridoi di questa stazione ottocentesca dove girano, tra gli altri, enormi sagome di Pluto e Topolino che dovrebbero rallegrare i bambini ma fanno solo una gran pena a tutti. Uomini e donne dormono accasciati sulle poltrone, per terra, distesi sui pacchi, hanno le mani grosse e le facce rugose, i capelli sconvolti. I fotografi sono tra i piú eccitati e spietati, sono tra quelli che meglio annusano il sangue: i loro obiettivi si avvicinano al volto dei bambini fino ad abusarne, e scavano alla ricerca dello scatto piú duro, affamati di lacrime e senza scrupoli; le madri si ribellano, subentra la polizia che vieta di fare le foto, ma tutti se ne infischiano, ci sono discussioni. Sulla pelle dei profughi campa un sacco di gente e la sofferenza è un grande mercato da sfruttare a fondo, un trampolino di lancio per tanti obiettivi. Nei giorni successivi mi sono spostato in un altro punto di confine piú a nord, a Korczowa, presso un gigantesco capannone dove si ammassano migliaia di esseri umani che, curiosamente, a un primo impatto visivo paiono diversi da quelli di Przemyśl, in quanto dai tratti somatici molto piú asiatici, o addirittura africani o indiani. Ho chiesto, nel caos generale, se questa mia percezione fosse corretta. «Perché loro vogliono tornare nei loro Paesi», mi è stato risposto. Non è vero. Ho visto con i miei occhi una profilazione etnica, cromatica: d’altronde non c’è ragione per cui agli ucraini sia riconosciuta la protezione temporanea, prima volta nella storia dell’Unione Europea, e ai siriani no. Secondo le cifre ufficiali da questi corridoi sono passati in due settimane circa un milione e mezzo di profughi, quasi esclusivamente donne e bambini e uomini anziani, perché gli uomini giovani non possono, e in molti casi non vogliono, in quanto arruolati nelle file dell’esercito ucraino e nelle varie milizie. Le poche centinaia, o migliaia, che sono bloccate nei Balcani cosa sono? Umanità di una serie inferiore? A Korczowa il caos è ovunque: è un sistema dove apparentemente manca una organizzazione centrale. Montagne di materiale in arrivo vengono ammassate nel grande piazzale antistante: cumuli di scarpe, di vestiario, di coperte, di cibo, di medicinali che non trovano spazio, frutto della generosità di chi decide di dare una mano privatamente. È il trionfo dell’individualismo: ormai nessuno piú riconosce efficacia alle grandi strutture mondiali che si occupano di profughi e cosí mette insieme lí per là un’auto dalla Danimarca o dall’Austria e si parte alla volta del fronte, da soli, allo sbaraglio. Hanno dei cartelli: offro quAttro posti A cAsA miA, si cHieDe pAssAporto bioloGico. porto coppiA AnziAni in itAliA A cAsA miA. offro Due posti per mADre e fiGliA. Qualcuno risponde e partono. Cosí, selvaggio. Si incontrano uomini e donne che vagano alla ricerca di qualcuno a cui consegnare la merce stivata dentro il furgone o nel bagagliaio dell’auto, e non trovando nessuno la distribuiscono autonomamente a chi ne vuole: cosí si fanno avanti gli sciacalli che sempre girano in queste storie e fanno incetta di quello che poi rivenderanno su qualche mercato. Dei tedeschi un po’ bizzarri un giorno mi fanno vedere cosa vorrebbero portare in Ucraina: sono vestiti con delle mimetiche e si definiscono «medici». Io avevo un gran mal di testa quando li ho incontrati e cosí gli ho chiesto se avevano un farmaco: e uno mi ha portato una birra. Gli chiedo, cosa portate? Guarda, mi dicono, e aprono il bagagliaio: in mezzo a casse di farmaci, vestiti e altra mercanzia spuntano le canne di due fucili d’assalto. Le vogliono portare di là «per dare una mano»: dove ci sono sangue e sofferenza i pazzi sguazzano. Le grandi organizzazioni, da Unhcr in giú, conoscono perfettamente la perversione di questo meccanismo, ma sono impotenti anche loro. A Korczowa mi fermo quattro giorni e alla fine mi domando se giungerà anche per gli ucraini il giorno in cui in Europa decideremo che sono troppi e quindi possono rimanere dove sono: la sorte dei siriani intrappolati in Turchia, o degli afgani. Anche loro, all’inizio, ci piacevano e volevamo aiutarli, anche per loro ci furono corridoi umanitari che li portavano al sicuro. Ma poi, assuefatti alla guerra, compreso che sarebbe rimasta dentro quei confini, non ci sono piú interessati e anzi, oggi sono nemici. Quando saranno anche gli ucraini a essere profughi a milioni avremo ancora questo coraggio? O chiederemo insistentemente una resa pelosa spacciandola per pace sulla loro pelle? Perché, in definitiva, esistono profughi che sono giustamente degni della nostra umanità e altri a cui viene concessa solo la nostra disumanità? È una questione di tempo? I fuggiaschi dalla Siria, dall’Afghanistan che vivono a milioni inchiodati in luoghi dove vengono maltrattati e sfruttati, chi sono? In Europa sono stati accolti 8000000 di ucraini; sulle tre rotte principali – Balcani – Mediterraneo occidentale – saranno circa 300 000 nemici. © 2023 Giulio Einaudi editore s.p.a., Torino