Questo libro è una storia d’amore per Beirut, la capitale del Libano, il Paese dei cedri. L’ha scritta Pierre Jarawan, nato ad Amman in Giordania, tedesco-libanese. Il protagonista di questo libro, il piccolo Samir, non si fa fatica ad intuirlo, è una proiezione di sé stesso. Ma in questo Là dove crescono i cedri, pubblicato dalla casa editrice SEM, c’è molto di più di un innamoramento per questo Paese devastato negli Anni Settanta da una guerra civile che lo aveva messo in ginocchio. Riducendo ad un cumulo di macerie le strade della città, dove un tempo circolavano auto lussuose e donne bellissime cariche di gioielli. Beirut e il Libano sarebbero sopravvissuti alla guerra. Attorno a quella che era una volta la Linea Verde, che divideva a Est i quartieri cristiani, a Ovest quelli musulmani, ci sono ancora i segni delle mitragliatrici e dei cannoni sui muri dei palazzi. Anche se la guerra civile è finita, e incombe una crisi economica che ha fatto sprofondare il Paese, Beirut rimane il simbolo di come le città, una volta dimenticate le guerre, possano rialzarsi in piedi. Ed è in questa città che torna Samir, scappato con la famiglia in Germania quando aveva tre anni. Il suo ritorno, vent’anni dopo, ha uno scopo preciso. Trovare il padre, scomparso quando lui era ancora bambino, e finito chissà dove. Un padre di cui ricorda appena le fiabe della buonanotte che gli raccontava. La memoria di quelle favole, insieme a una foto oramai sgualcita, è tutto quello che gli rimane. La ricerca del padre diventa un’ossessione coltivata per vent’anni. Dopo la scomparsa la sua famiglia è andata in frantumi. Come Beirut la bella, in cui una volta tornato riannoda ricordi privati e vicende politiche a volta assai dolorose. Beirut la bella dove lungo la Corniche che costeggia il mare si sente ancora il profumo dei cedri. Quel profumo che per vent’anni gli terrà vivo il ricordo di una città che mai potrà morire e delle sue radici. Fabio PolettiPierre JarawanLà dove crescono i cedritraduzione di Emilia Benghi2021 SEMpagine 448 euro 19

Per gentile concessione dell’autore Pierre Jarawan e dell’editore SEM pubblichiamo un estratto dal libro Là dove crescono i cedri.In quel preciso momento in Libano si scriveva la storia. Beirut la bella, ora buia, emergeva barcollante dalle macerie, le mani sul volto devastato. Una città che si tastava il polso. Nei vari quartieri le persone rialzavano stanche la testa scuotendosi la polvere di dosso. La guerra era finita. I miliziani tornavano cittadini e, posate le armi, imbracciavano le pale. Si stuccavano i fori dei proiettili nei muri, si imbiancavano le facciate, si rimuovevano dalle strade le carcasse dei veicoli bruciati. Si sgombravano le macerie, il fumo pian pano si dissolveva. Si toglievano le lenzuola appese in strada perché non c’erano più cecchini da nascondere. Donne e bambini liberavano i balconi dai calcinacci, staccavano le assi a protezione delle finestre, i padri riportavano in casa i materassi dai rifugi nei seminterrati. In breve, i libanesi facevano quello che avevano sempre fatto: andavano avanti.Ma la notte, quando le facciate delle case, truccate a dovere, entravano in scena sotto il riflettore della luna, e il mare faceva da specchio alle luci della città, nelle strade e nei vicoli risuonavano passi marziali. E non solo in centro. Anche nelle borgate di periferia, nei paesi del circondario e nelle altre città costiere o montane – dal Nord al Sud, da Tripoli a Tiro –, ovunque nel paese era un batter di tacchi. Il Libano dava un ballo e Beirut voleva essere la reginetta della festa, ma i suoi truccatori erano soldati siriani. E quando la luce tornò, rivelando che il trucco e la notte camuffavano solo parzialmente le ferite, sui muri delle case apparve l’opera degli uomini con gli stivali. All’alba la gente in strada alzò gli occhi sulle gigantografie del presidente siriano Hafez al-Assad, con la sua perfetta scriminatura laterale. Ormai non c’erano più dubbi, era inequivocabile e palese: in Libano il potere era in mano ai siriani, che avrebbero comandato tutti a bacchetta. Si avvicinavano le elezioni, le prime del dopoguerra, le prime da vent’anni a quella parte.In Libano, in base al principio della parità tra confessioni, ogni comunità religiosa è rappresentata in Parlamento secondo un preciso criterio numerico. Che cosa strana. I gruppi religiosi che si erano massacrati a vicenda per quindici anni, da quel momento in poi in teoria dovevano combattere a parole, non con le armi. E quegli stessi gruppi che si erano scontrati nei vicoli della città si sarebbero ritrovati a sedere accanto in Parlamento come se nulla fosse. Amnistia generale. Chiudere il libro di Storia e guardare avanti. Nelle settimane precedenti il voto chi si trovava a passare per le strade di Beirut percepiva il solito caos, niente più spari ed esplosioni ora, ma le grida degli attivisti della campagna elettorale che distribuivano volantini. Queste squadre speciali, armate di colla e pennelli, tappezzavano di manifesti i muri dei diversi quartieri. Bloccavano gli automobilisti in coda per mettergli in mano volantini che, a parte gli slogan tipo sono il vostro uomo – nella buona e nella cattiva sorte o ecco mio figlio, votatelo, non contenevano alcuna promessa concreta. La gente se li portava a casa, molti però li buttavano nell’immondizia, amareggiati per quell’assurdo teatrino. Comunque ci fu chi indossò il vestito buono e andò a votare, felice di muovere un passo verso il futuro. Era mancata una campagna elettorale con un dibattito serio e proposte solideper la ricostruzione. Che senso avrebbe avuto? Per la maggior parte dei candidati i collegi elettorali erano stati confezionati su misura da Damasco. In un paese in cui più della metà della popolazione nella sua vita non aveva conosciuto altro che lo scoppio delle bombe e l’eco degli spari, i siriani, giunti nel 1976 come forza di pace – e poi rimasti –, imponevano le elezioni, pur contando nel paese una presenza di quarantamila soldati. Nessuno ormai credeva più che avrebbero lasciato il Libano entro la fine dell’anno, come previsto. Per questo la Camera dei deputati emersa da quelle elezioni fu troppo bendisposta nei loro confronti.Indossato l’abito più bello, Beirut tornò a danzare. Negli hotel della Corniche si organizzavano sontuose feste di matrimonio. Il trucco reggeva. I rappezzi sulle facciate facevano sembrare solidi gli edifici fatiscenti. Le telecamere dei media arabi e occidentali inquadravano tutta quell’animazione e sui teleschermi in Germania appariva un paese che, seppur claudicante, camminava sulle sue gambe e forse era addirittura pronto a rifiorire. Dopo le elezioni, strette di mano a non finire e vincitori radiosi.Ma nessuno tolse le gigantografie dai muri. Hafez al-Assad continuava a sorridere sopra Beirut.© 2016 Piper Verlag GmbH, München/Berlin© 2021 Società Editrice Milanese