Il Grande Male, il Metz Yeghem, ebbe inizio il 24 aprile 2015. Ufficialmente il Regime Ottomano parlò di reinsediamento della comunità armena, minoritaria nel Paese. È quella invece la data dell’inizio del Genocidio Armeno, che portò in pochi anni, fino al 2018, allo sterminio di un milione e mezzo di persone. In questo libro, Killing orders, pubblicato da Guerini e Associati, Taner Akçam ricostruisce nei dettagli l’origine, lo svolgimento fino al negozianismo delle autorità turche che perdura ancora oggi, di uno dei più grandi massacri della storia. Nei telegrammi e nei documenti scritti da Talat Pasha, l’artefice del Grande Male, c’è tutto: dalla meticolosa preparazione alle deportazioni di massa verso il deserto siriano, alle incarcerazioni di politici ed intellettuali armeni, uno sterminio per cancellare un intero popolo. L’architettura del genocidio, il primo del XX secolo, sarà l’architrave per programmare altri genocidi. Per questo suo lavoro minuzioso sulla documentazione originale, per la prima volta tradotta in Italia, lo studioso Taner Akçam nel 1976 viene arrestato dalla polizia turca e condannato a dieci anni di carcere. Un anno dopo riesce a fuggire di prigione e riparare in Germania. Poco dopo riesce ad emigrare in America, dove oggi ha la cattedra di Storia del Genicidio Armeno alla Clark University di Worcester nel Massachusetts e dove finalmente ha potuto compiere i suoi studi, che illustrano nei dettagli tutta la storia del primo sterminio di massa del Secolo breve. Fabio Poletti

Taner Akçam
Killing orders
I telegrammi di Talat Pasha e il Genocidio Armeno
a cura di Antonia Arslan
traduzione di Vittorio Robiati Bendaud e Alice Zanzottera ha collaborato Domenica Rossi
2020 Guerini e Associati
pagine 312 euro 25

Per gentile concessione dell’autore Taner Akçam e dell’editore Guerini e Associati pubblichiamo un estratto del libro Killing orders.

In definitiva, i dibattiti sul negazionismo non ruotano attorno all’accettazione, oppure al rifiuto, di un gruppo di fatti accettati o della verità che ne derivi; sono senza dubbio una lotta per il potere, mossa da un diverso ordine di fatti e verità, animata da altri moventi. Una lotta di questo genere è riscontrabile in relazione alla realtà del Genocidio Armeno, che, tra il 1915 e il 1918, condusse alla morte, e più precisamente all’uccisione, oltre un milione di persone. Da allora, per oltre un secolo, i vari governi turchi succedutisi sono riusciti a erigere la propria versione di una storia ufficiale e a tenere in ostaggio la Storia con proprie prove e verità. Così facendo, hanno trionfato nel rendere noto il loro punto di vista storico, elevandolo al livello di ragionevole possibilità storica. Il negazionismo turco in relazione agli eventi concernenti la Prima guerra mondiale è forse l’esempio più riuscito di come una ben organizzata, deliberata e sistematica diffusione di falsità possa svolgere un ruolo importante nel dibattito pubblico, avvalendosi anche di fatti eloquenti per costruire una falsa verità. Coloro che rispettano l’adagio secondo cui «è lecito che ognuno abbia la propria opinione, ma non i propri fatti», hanno potuto seguire con stupore i dibattiti pubblici e storiografici sul Genocidio Armeno negli ultimi decenni, laddove le verità basate sui fatti sono state screditate e degradate allo status di semplice opinione. Occultare la verità con lo scopo di silenziarla è stato un aspetto fondamentale di questa strategia.
Questo volume si propone di fare chiarezza in un dibattito viziato dalla confusione creatasi attorno al rapporto tra fatti e verità circa il Genocidio Armeno. Potrà servire da dettagliato case-study, che dimostra con precisione come coloro che han- no nascosto le verità, smembrandole e così sentendosi rassicurati e rinforzati, siano in errore.
La seguente citazione di Michel-Rolph Trouillot è perfettamente pertinente al nostro problema: «I silenzi entrano nel processo di produzione storica in quattro momenti cruciali». Si tratta, rispettivamente, di: «(1) il momento della creazione dei fatti (l’individuazione delle fonti); (2) il momento dell’assemblaggio dei fatti (la creazione di archivi); (3) il momento del recupero dei fatti (lo strutturarsi di narrazioni); infine, (4) il momento del significato retrospettivo (ossia, in ultima istanza, la creazione della storia)». A queste fasi ne aggiungerei un’ulteriore: (5) la distruzione – o il tentativo di confutare, e così negare – l’autenticità di documenti critici.
Se è possibile cogliere in ogni genocidio un carattere unico, peculiare e distintivo, il caso armeno risulta allora essere unico per gli sforzi inveterati di negarne la storicità e occultare così le verità che lo circondano. Un’altra caratteristica unica di questo secolo di negazionismo è che costituì una componente intrinseca dell’opera genocidaria, sin dalla sua origine. In altre parole, la negazione del Genocidio Armeno non ebbe inizio dopo i massacri, ma fu parte integrante del piano genocidario. Le deportazioni degli armeni dalla loro terra natia verso i deserti siriani e la loro eliminazione, sia lungo la via sia giunti alle destinazioni finali, sono state eseguite con il pretesto di un loro reinsediamento. Ci si adoperò per organizzare e realizzare l’intero processo proprio con l’intento di offrire tale immagine.
Anche se non possiamo discuterne in dettaglio in queste pagine, l’interrogativo più pressante riguarda le radici di questa particolare politica. La debolezza dello Stato ottomano in quella congiuntura storica sembrerebbe essere la ragione più importante. Le autorità ottomane dovettero organizzare l’intero processo di espulsione e sterminio sotto lo sguardo indagatore di Germania e Stati Uniti, visto che dipendevano dal sostegno finanziario e militare tedesco e volevano che gli americani rimanessero neutrali. Non potendo ignorare queste due potenze, si sentirono obbligati a giustificare le loro azioni. Va da sé che la negazione e l’inganno si rivelarono delle efficaci strategie per smorzare le pressioni americane e tedesche. Inoltre, l’assenza di un movimento ideologico di massa, che fornisse il sostegno popolare a politiche genocidarie all’interno della società ottomana, sembra essere un’altra ragione. Ciò contribuisce a spiegare – ed è uno degli argomenti di questo libro – anche l’elevatissima corruzione dei burocrati ottomani, che svolsero un ruolo decisivo (in particolare in Siria), come pure il fatto che il governo abbia aizzato la popolazione a depredare gli armeni indifesi come incentivo a sostegno delle politiche genocidarie.
La documentazione ufficiale, tesa a presentare l’intera opera di deportazione e di sterminio come un reinsediamento legittimo, iniziò a essere prodotta proprio nei primissimi giorni delle espulsioni. In altre parole, quello che Trouillot ha descritto come «il momento della creazione dei fatti (l’individuazione delle fonti)» cominciò – se non ancor prima – il 24 aprile 1915, oggi considerata simbolicamente la data di inizio del Genocidio Armeno. In quel giorno vennero arrestati circa duecento intellettuali armeni insieme alle dirigenze della comunità armena di Istanbul. Furono inviati ad Ayaş [Ayash] e Çankırı (il primo una prigione, il secondo una residenza coatta), entrambe in prossimità della città di Ankara, e nei mesi seguenti molti altri intellettuali vennero destinati a entrambi i luoghi. La maggioranza sarebbe stata successivamente deportata verso le loro destinazioni finali e uccisa durante il viaggio. Gli Archivi Ottomani tracimano di documenti che riportano la morte di queste persone, perite per attacchi cardiaci e per altre cause naturali; oppure, in alternativa, ne viene riportata la fuga o il rilascio. In un articolo di Yusuf Sarınay, che per lunghi anni fu il direttore generale degli Archivi Ottomani, basato proprio su tali documenti e consacrato a questo argomento, si afferma che, su 155 intellettuali confinati a Çankırı, solo 29 furono lì imprigionati; altri 35 furono ritenuti innocenti e rimpatriati a Istanbul, mentre 31 furono graziati dal governo con il permesso di recarsi in qualsiasi città volessero. Altri 57 furono deportati a Dayr al-Zur, mentre tre stranieri furono esiliati dal Paese. Si è sostenuto che nessuno di questi intellettuali sia stato vittima di omicidio.

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