È una Teheran che non esiste più, quella raccontata dallo scrittore Sadeq Hedajat, un monumento della cultura persiana, in questo Il randagio e altri racconti pubblicati dall’editore Carbonio. I protagonisti dei nove racconti sono persone che si incontrano per la strada, ma forse è la strada stessa ad essere protagonista. Siamo nella Persia degli Anni Trenta e Quaranta. Prima dell’avvento di Mohammad Reza Pahlavi, lo Scià contro il quale lo scrittore combatterà una battaglia lunga una vita, prima di finire in esilio a Parigi, dove morirà suicida all’inizio degli Anni Cinquanta. In questi racconti c’è il profumo di un’epoca, vista attraverso gli occhi di un droghiere, un macellaio, un cambiavalute e poi una miniaturista. Le ambientazioni sono tutte per strada, dalla sala da tè crocevia della vita cittadina alla moschea dove impera l’imam, fino alla corte del Califfo. Si incontrano anime alla deriva, incapaci di trovare un senso alla vita e ai troppi torti subiti. Forse una trasposizione dello stesso scrittore che abbandonerà Teheran per Parigi, non riuscendo comunque a trovare pace se non in quel gesto risolutivo con cui si toglierà la vita. Sadeq Hedayat, padre della letteratura persiana moderna, è sepolto al cimitero del Père-Lachaise, tra i Grandi di Francia e del mondo. Fabio Poletti

Sadeq Hedayat
Il randagio e altri racconti
traduzione di Anna Vanzan
2021 Carbonio Editore
pagine 151 euro 14,50 ebook euro 7,99

Per gentile concessione di Carbonio Editore pubblichiamo un estratto dal libro Il randagio e altri racconti.

Abji Khanum era la sorella maggiore di Mahrokh, ma chiunque le avesse viste insieme mai avrebbe pensato che fossero sorelle. Abji Khanum era alta, magra, scura di carnagione, con grandi labbra carnose e capelli neri, piuttosto bruttina. Al contrario, Mahrokh era piccolina, di incarnato chiaro, con un bel nasino, i capelli castani, bellissimi occhi e quando rideva le si formavano delle fossette agli angoli della bocca. Erano assai diverse anche di indole: fin da piccola Abji Khanum era puntigliosa e aggressiva e non andava d’accordo con la gente. Era stata perfino due o tre mesi senza neppure parlare a sua madre. Al contrario, sua sorella era socievole, affascinante, di buon carattere, sempre col sorriso. La loro vicina Naneh Hasan l’aveva soprannominata ‘la cocchina’. Anche i loro genitori preferivano Mahrokh, che era la piccolina e la più dolce. Abji Khanum le aveva buscate dalla madre fin dall’infanzia; non la sopportava, ma davanti agli altri, ai vicini di casa, mostrava di essere preoccupata per lei e, dandole una pacca sulla mano, si lamentava.
“Che ne farò di questa sfortunata? Chi si prenderà una ragazza così brutta? Ho paura che mi resterà sulla groppa per sempre! Una ragazza brutta senza arte né parte! Quale disgraziato se la prenderebbe?!”.
Avevano ripetuto questi discorsi davanti ad Abji Khanum così tante volte che lei stessa aveva perso le speranze e aveva abbandonato ogni idea di matrimonio. Trascorreva la maggior parte del tempo in preghiera e devozione. Aveva abbandonato ogni idea di matrimonio, anche perché non glielo procuravano un marito. Per la verità, una volta avevano provato a darla in sposa a Kalb Hosein, l’apprendista del falegname, ma quello però non l’aveva voluta. Ma dovunque andasse, Abji Khanum diceva:
“Mi avevano trovato marito ma io non l’ho voluto. Puah, i mariti oggi sono tutti degli ubriaconi e donnaioli, buoni solo per attaccarli al muro! Non mi sposerò mai”.
Questo era quello che dichiarava in pubblico, ma nel profondo del suo cuore Kalb Hosein le piaceva, e avrebbe voluto assai diventare sua moglie. Ma siccome sin da piccola si sentiva dire che era brutta e che nessuno l’avrebbe sposata, si era convinta che non avrebbe partecipato alle gioie di questo mondo, voleva almeno, tramite le preghiere e la devozione, conquistarsi quelle della vita nell’aldilà. E così aveva trovato consolazione. Insomma, perché dolersi di questo mondo se non poteva goderne i piaceri? Lei avrebbe avuto il mondo eterno e immutabile e tutti i belli, inclusa sua sorella, l’avrebbero invidiata.
Con l’arrivo dei mesi di Moharram e Safar, Abji Khanum si dava alle apparizioni pubbliche. Non c’era commemorazione dei martiri cui lei non partecipasse, e dalle undici del mattino in poi assisteva alle rappresentazioni sacre. Tutti i predicatori la conoscevano e tutti desideravano che Abji Khanum stesse ai piedi del pulpito in modo che la gente si infervorasse grazie ai pianti e ai lamenti della ragazza. Aveva imparato a memoria quasi tutte le storie dei martiri, e visto che aveva ascoltato così tante prediche ed era così addentro ai problemi religiosi, perfino i vicini venivano a chiederle un parere sui loro casi.
All’alba era lei a svegliare i familiari. Per prima cosa andava dalla sorella ancora a letto e le mollava un calcio.
“È quasi mezzogiorno, quand’è che ti alzi a pregare?”.
La poverina si tirava su e mezza addormentata compiva le abluzioni e poi si metteva a pregare.
La preghiera del mattino, il canto del gallo, la brezza mattutina, i bisbigli delle orazioni conferivano ad Abji Khanum una disposizione particolare, un atteggiamento spirituale che la rendeva orgogliosa. Diceva a se stessa:
“Se Dio non prende in paradiso me, chi altri mai prenderà?!”.
Dopo aver finito le incombenze di casa e criticato questo e quello, prendeva un rosario, i cui grani neri erano ingialliti dall’uso, e ricominciava con le orazioni. Adesso il suo desiderio più grande era di compiere il pellegrinaggio a Karbala e starsene un po’ là.
La sorella, invece, non aveva alcun interesse per l’aspetto spirituale della vita, e si dedicava ai lavori domestici. Compiuti i quindici anni, andò a servizio. Abji Khanum ne aveva ventidue, ma era rimasta a casa e in cuor suo invidiava la sorella. Nell’anno e mezzo trascorso da quando Mahrokh aveva lasciato la famiglia, mai una volta che Abji Khanum fosse andata a trovarla, o almeno avesse chiesto sue notizie. Quando Mahrokh veniva in visita, ogni due settimane, Abji Khanum si metteva a litigare con qualcuno, oppure si dava alla preghiera per varie ore. E quando finalmente si sedevano tutti assieme, attaccava la sorella e la indottrinava sulle preghiere, sul digiuno, sulle abluzioni rituali e su attività di dubbia natura.
“Da quando ci sono quelle fraschette, il pane è rincarato. Chi non si vela, finirà all’inferno appesa per i capelli. Chi dà scandalo, vedrà la testa crescere come una montagna mentre il collo si restringerà sottile come un capello. All’inferno ci sono tali serpenti da spingere la gente a cercare rifugio da un drago piuttosto…”.
Insomma, faceva questo tipo di discorsi. Mahrokh percepiva l’invidia della sorella, ma non lo dava a vedere.
Un pomeriggio, Mahrokh venne a casa, parlottò sottovoce con la madre per un po’ e quindi se ne andò via. Nel frattempo, Abji Khanum era seduta vicino alla porta della stanza di fronte a fumare la pipa ad acqua, ma la rabbia le impedì di chiedere alla madre l’oggetto della conversazione e quella si guardò bene dal rivelarglielo.
La sera, il padre rientrò col suo cappello da muratore impiastricciato di gesso; si cambiò d’abiti, prese la saccoccia del tabacco e la pipa e salì sul terrazzo.
Abji Khanum lasciò da parte quello che stava facendo, e insieme alla madre prese il samovar di bronzo, la pentola col cibo, la ciotola di rame, i sottaceti, la cipolla e si sedettero tutti sul tappeto. La madre annunciò che Abbas, un ragazzo a servizio nella stessa casa dove lavorava Mahrokh, voleva sposarla. Quella mattina, approfittando della calma, la madre di Abbas era venuta a chiedere la mano di Mahrokh. Volevano chiudere il contratto di nozze la settimana successiva: offrivano venticinque tuman come prezzo della sposa e trenta di dote, oltre a uno specchio, un tulipano, un Corano, un paio di scarpe, i confetti, una borsa di henna, una sciarpa di taffetà e delle stoffe tessute con fili dorati.
Il padre, facendosi fresco con un ventaglio di stoffa gialla, sorbiva il tè facendolo filtrare attraverso lo zuccherino che s’era messo in bocca e scuotendo la testa mugugnava in punta di lingua “molto bene, congratulazioni, non ci vedo niente da criticare!”.
Non si riusciva a capire se fosse sorpreso, contento, o se provasse altre emozioni, o avesse solo timore di sua moglie.

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