Era un secolo fa, ma la sua eco si sente ancora lungo il confine. Tra turchi e greci i rapporti sono sempre stati quelli che sono, fratelli e coltelli, così uguali e così diversi. In questo libro di Ilias Venezis, pubblicato per la prima volta negli Anni Trenta, ripubblicato oggi anche in un’edizione numerata dalle Edizioni Settecolori, con il titolo Il numero 31328, rivive, un secolo dopo, il pogrom dei turchi contro gli abitanti di origini greca in Anatolia. La memoria del massacro degli armeni si era sopita da pochi lustri, quando l’esercito della mezzaluna era tornato in azione anche nelle zone più inaccessibili della Turchia asiatica. A farne le spese i greci intruppati in una forza militare in disfatta lungo il fiume Sangario. E i loro connazionali che da anni abitavano quella regione dell’Asia Minore. L’esercito di Kemal Ataturk, il padre nobile della Turchia moderna, non fa sconti a nessuno. Tutti i maschi tra i 18 e i 45 vengono fermati in operazioni di rastrellamento e inviati nei campi di lavoro, in uno scenario che di lì a qualche decennio si ripeterà su più larga scala, nel mirino saranno gli ebrei ed altre minoranze etniche, ad insanguinare l’Europa. Ilias Mellos, il vero nome dell’autore Illis Venezis, viene raggiunto dalla furia dei militari turchi mentre è nascosto a casa dei suoi parenti nella città di Aivalì, di fronte all’isola di Lesbo, terra quieta di capre e ulivi. Da lì inizierà la dura marcia forzata a piedi nudi verso i Battaglioni di lavoro nel cuore dell’Anatolia, l’abisso in cui precipiterà per iniziare una nuova vita, che si fa fatica a considerare umana come ci avrebbe insegnato anni dopo Primo Levi.
Pubblicato nella sua prima versione nel 1931 divenne un caso letterario nella Grecia ancora scossa da una tragedia che aveva visto riversarsi sulle isole e sulla terraferma più di un milione di profughi. Altrettanti si stima perirono nel corso delle violenze, delle rappresaglie, degli incendi di villaggi. Scompariva definitivamente la millenaria presenza ellenica in Asia Minore. La vita nei Battaglioni di lavoro preannuncia l’inferno concentrazionario della Seconda guerra mondiale. Non mancano neppure i zaùs, i kapò greci dei campi, persino più crudeli dei turchi nei riguardi dei connazionali. E non mancano episodi di straziante umanità: un medico militare al quale i greci hanno ammazzato la madre, che si prende cura di Ilias; una vecchia che offre del pane caldo e una mela cotogna, un anziano avaro che centellina offerte di tabacco per gli schiavi. Su tutti questi volti risplende «l’aspro sole dell’Anatolia che pian piano, quanto più la guerra si allontana, comincia pazientemente ad avvolgere di nuovo i suoi uomini». Una cronaca dolente e corale, un denuncia serrata degli orrori della guerra e dell’odio «questa potenza talmente deificata, ma che si rivela così sterile». Fabio Poletti Ilias Venezis Il numero 31328 Il libro della schiavitù traduzione di Francesco Colafemmina 2022 Edizioni Settecolori pagine 367 euro 22Per gentile concessione delle Edizioni Settecolori pubblichiamo un estratto dal libro di Ilias Venezis Il numero 31328.
Ci tirano fuori dalla parte bassa del sotterraneo. Ci pigiamo davanti alla piccola porta per poter uscire. Sento per un istante il signor Iakovos, vicino a me, che mormora: «Nel nome del Padre, del Figlio, del Padre e del Figlio…», molte volte. Ci dispongono in doppia fila. Lì, accanto al mare. Nel porto si accendono le luci di un piroscafo, di quelli che prendono donne e bambini. Sarà passata la mezzanotte. Lo suppongo dall’Orsa Maggiore che si è abbassata molto. Un mio compagno di scuola era molto appassionato di stelle. Fu lui ad insegnarmi a riconoscerle. Sirio? Così tante, così tante migliaia, così tanti decimi, millesimi lontano. Neppure uno di meno? Neppure. Fa molto freddo. Battiamo i denti. Sono nella prima fila. A fianco a me il capitano. Da dietro, Erodoto, una palla scura, osserva con i suoi grandi stupidi oc- chi, colmi di perplessità, e trema. Nella casa che sovrasta il sotterraneo, dove ci sono gli uffici della Polizia, molte luci. Voci ebbre cantano. Aspettiamo. Alla fine si apre la porta. Un soldato scende con una lampada ad olio in mano. Da dietro arriva un ufficiale. È ubriaco fradicio. Barcolla. − Venite! Venite! Grida l’ufficiale a qualcun altro all’interno. Stasera uno in più per voi! Dalla casa esce un altro ufficiale e lo segue. Il soldato va all’estremità della nostra fila, abbassa la lampada sui nostri volti, perché vengano illuminati, attende. Si avvicina lì il primo ufficiale. È lo stesso che ci ha colpiti al mattino – i quadri futuristi. Il suo baffo biondo dal lato destro si è piegato un po’ troppo – E Sirio?… L’ufficiale guarda sotto la luce e tira uno di noi fuori dalla linea, a fianco. L’osserva, ride, poi procede oltre. Ne tira un altro. − Anche tu vecchio cane! Dice. Un altro. La luce, il soldato con la lampada, si avvicinano progressivamente dalla nostra parte. Questa luce splende come se dovesse assolvere ad un terribile obbligo – così, deve farlo. Per un rapido istante mi domando se scelga i giovani o i più grandi d’età. Ma vedo che li prende alla rinfusa, d’ogni sorta. Nel frattempo arrivò la luce. È davanti a me. Sento i miei giovani anni indifesi, così, petto a petto. Mi manca il fiato. La mano dell’ufficiale si apre per tirarmi. Ma proprio in quel preciso istante, un istante da nulla, tac, l’ufficiale barcollò per l’ubriacatura. Ride. Cerca di ritrovare l’equilibrio, ma con questo movimento la sua posizione si sposta di due centimetri. Due insignificanti centimetri. La sua mano cade dritta sul capitano, di fianco a me. Respiro profondamente. Ah, là in fondo c’è una dura gioia, una tale dura gioia… Hanno messo da parte sei dei nostri compagni. Poi un altro, sono diventati sette. Vedo un plotone di soldati che si prepara. Scendono con le loro armi, uno ad uno. Si radunano ad una estremità accanto a noi. − Basta! Dice l’ufficiale al soldato con la lampada. Ma subito, come se ricordasse, si gira dal lato dell’altro ufficiale: − Ah, a proposito, anche uno per voi! Dice. Scegliete! Quest’altro si avvicina alla linea. Il nostro cuore di nuovo batte all’impazzata. Ne tira uno. Ci chiniamo per guardare: è il signor Iakovos. − Io no! Io no! Prega con disperazione il poveretto. Io Italia tambashì*!, Italia tambashì… Domani mi verranno a cercare… − Cane! Muggisce l’ufficiale biondo, e lo tira dalla fila. Poi ordina al plotone: − Tornate in fretta! I soldati vanno vicino ai nostri compagni che sono stati separati. − Se avete qualcosa, prendetelo! Gli grida il capo del plotone. Infilano prima noi nel sotterraneo. Poi dietro di noi arrivano anche gli altri, meccanicamente, a prendere quel che hanno. Per quale ragione? − Presto! Grida il sergente da fuori, vedendo che si attardano. Il sotterraneo è tutto un sussurro. Un uomo piange nervosamente. Qualcun altro dice «addio». Il tempo passa. Il sergente ordina con più ferocia: − Presto! Nell’angolo in cui mi sono rannicchiato si avvicina la pesante mole del capitano. Lo vedo che arriva e mi prende paura. Si china silenzioso. Fa come per frugare lì al nostro capezzale, come se avesse qualcosa da prendere. Poi di nuovo si rialza. − Non ho niente, mormora distratto, come se ricordasse di non avere per davvero nulla da prendere. Gli faccio coraggio. − Tieni, Manolis. Prendi le mie coperte. Lo dico così senza pensarci, un tentativo di sembrargli all’ultimo minuto davvero così utile, nonostante sia certo che non abbia più bisogno di nulla ormai. − E che me ne faccio? Si domanda anche lui sommesso. Il sergente impreca, per la terza volta adesso: − Avanti, ulan! È chiaro che tutti cercano di restare ancora un po’, per quanto possibile, di indugiare. Alla fine Manolis si abbottona di scatto, come se avesse preso la decisione. Due tre versi stridono fra i suoi denti. Appena ce la fanno a incontrarsi: − Ehi… Addio… Si mette le mani in tasca e si precipita alla porta. La sua grande mole si dissolve in mezzo al buio. Smarrito, paralizzato, ascolto per un tratto i suoi passi là fuori che vanno via. Si spensero. Mi rannicchio più vicino al signor Pepas. Trema. «Signore, Signore…» mormora. Il suo cuore batte, tic tac. − Mi chiedo in che modo?… domanda con un sussurro e se ne sta lì come se temesse di continuare il suo pensiero. I miei occhi faticano, faticano a resistere, non ce la fanno più, si sono inzuppati. La scena torna e ritorna lì, in mezzo alla luce sospetta, sulla volta del sotterraneo. – un passo falso, due centimetri. Sento che mi schiaccia un orrido peso, lotto per resistere. Ma che colpa ho io? Che colpa ho io? Domani toccherà a me, o dopodomani. Progressivamente si genera ulteriore calma nel sotterraneo. Le candele si spengono una ad una. Passò quasi un’ora. Il signor Pepas si rigira, non riesce a trovare pace. Il cavallo a fianco a noi, si sposta, sembra che voglia distendersi anche lui. Ancora un po’ e calpesterà Pepas. − C’è posto più là? Mi chiede inquieto. Mi tiro per quanto posso verso il posto che ha lasciato Manolis. − Non ce n’è più, dico. Ci sono gli altri. Il signor Pepas si alza, scioglie la corda alla quale è legato l’animale dall’anello e lo tira. Lega nuovamente poi il nodo più vicino. Non ha lasciato che due spanne di corda soltanto dal muso dell’animale. Torna e si stende. − Così non potrà sdraiarsi a terra, dice. Ma il cavallo nitrisce. Senza sosta. È chiaro che sta protestando. La sentinella da fuori si agita. Entra. Vede la stretta le- gatura dell’animale e si infiamma. − Ghiaur**! Bestemmia e dà un calcio al signor Pepas. Poi lascia la corda più lasca, perché l’animale abbia agio. Saranno passate due ore. Il signor Pepas si è raggomitolato, siede inginocchiato per far riprendere il cavallo. Non si sentono che pochi rumori, bruschi. Si perdono subito. Ma pian piano il mio orecchio coglie, in lontananza, molti passi. Piano. Piano. Si avvicinano di continuo, diventano più chiari. Vengono dalla strada, dal punto in cui se ne sono andati gli altri due ore prima. Mi metto in ascolto con gli occhi spalancati. Alla fine si fermano fuori dalla casa. Parlano fra di loro in turco, non capisco. − Sono tornati… sussura Pepas. − Sì. Sono tornati… È il plotone. È finita. Unisco i miei piedi e mi imbacucco fino alla testa. * Cittadino italiano. ** Infedele. © 1931 Eredi Ilias Venezis © 2022 Edizioni Settecolori s.r.l. Milano