Mare nostrum come lo chiamavano gli antichi romani. Talvolta monstrum, come se fosse colpa del Mediterraneo la strage di innocenti che dagli Anni Novanta miete migranti da ogni angolo della Terra, annegati nel vano tentativo di raggiungere una terra promessa dai trafficanti di esseri umani. Di questo, della sua storia millenaria dall’antichità ai giorni nostri, scrivono Peregrine Horden e Nicholas Purcell, in questo monumentale Il mare che corrompe, pubblicato da Carocci Editore. Peregrine Horden è professore di Storia medievale alla Royal Holloway, Università di Londra. Nicholas Purcell è professore emerito di Storia antica all’Università di Oxford e fellow del Brasenose College e della British Academy. Che il Mediterraneo sia un mare che corrompe non c’è dubbio. Tra commerci, guerre e migrazioni, ha saputo cambiare le popolazioni e i Paesi che si affacciano sul suo mare. Un cambiamento, una corruzione nel senso letterale del termine, cioè di disfacimento di un ordine precedente, che ha coinvolto economie e linguaggi, identità ed etnie, usi e costumi. Ma questo studio assai approfondito parte da molto prima. Secondo la mitologia antica, nell’Età dell’oro non esistevano né la navigazione né il commercio. Fu la leggendaria nave Argo a solcare per la prima volta il mare, dando inizio alla corruzione dell’uomo. Sin dall’antichità, sono frequenti le rappresentazioni del mare come fonte di ricchezza e quindi di tentazione. Eppure, come suggeriscono Peregrine Horden e Nicholas Purcell, è proprio la mobilità marittima a essere il più grande elemento di continuità nella storia mediterranea: ciò che permise all’uomo di far fronte ai rischi dell’isolamento geografico e dell’instabilità climatica, ambientale e produttiva. Dopo i fondamentali lavori dello studioso Fernand Braudel, The Corrupting Sea è il primo studio ad affrontare il rapporto fra uomo e ambiente nella regione del Mediterraneo nell’arco di ben oltre tremila anni. Fabio Poletti

Peregrine Horden Nicholas Purcell
Il mare che corrompe
Per una storia del Mediterraneo dall’Età del ferro all’Età moderna
traduzione di Federico Santangelo
2024 Carocci
pagine 608 euro 54

Per gentile concessione degli autori Peregrine Horden e Nicholas Purcell e dell’editore Carocci pubblichiamo un estratto dal libro Il mare che corrompe

Le forme legali di certe istituzioni, definite sulla base di un qualche ordinamento giuridico, sono un fenomeno di tutt’altra natura rispetto alla realtà soggiacente: l’intrusione di stranieri, spesso persone dalle origini assai diverse, che colgono le opportunità. Questo fatto può essere meglio compreso se misurato su un arco temporale molto esteso. Le origini dell’istituto medievale del fondaco (funduq) – un insediamento autonomo e distinto di stranieri nel porto di un’altra civiltà – vanno fatte risalire alla Costantinopoli del X secolo e al sistema del mitaton, con il quale i Bizantini cercarono di regolare la presenza e la concorrenza di forestieri. Il fatto che un’acuta indagine sulle radici del fenomeno si riduca ad ascriverle alla Cina (Lopez, 1949) è un evidente sintomo della riluttanza dei medievisti a guardare nel passato del Mediterraneo. È difficile, infatti, che le comunità presenti all’interno di uno Stato, come i conventus degli stranieri nelle città ellenistiche e romane e i meteci – cioè i forestieri liberi – della Grecia antica, possano aver tratto ispirazione da un Oriente così distante. In questo contesto va menzionata anche la colonia romana d’oltremare che, a prima vista, sembra essere un’entità più esclusiva, piuttosto diversa nei suoi fini e nelle sue intenzioni. Per ritornare alla costa settentrionale del Maghreb, la serie di colonie costiere stabilite da Augusto e indicate anche nella figura 21 (Mackie, 1983) rientra bene nel modello generale del Mediterraneo. Già nel ii secolo a.C., attraverso la fondazione di insediamenti come Narbona, nel cuore della cruciale zona di scambi affacciata sul Golfo del Leone e, soprattutto, stanziandosi sul sito dell’antico centro ridistributivo di Cartagine, Roma si inseriva in questa tradizione.
I migliori esempi di varietà etnica in quello che è stato talvolta presentato come un mondo coloniale monocromo sono però alcuni dei primi insediamenti: le apoikiai greche cui si è accennato supra e nel paragrafo 3.2. Il primo di questi, Pitecussa, sorta nel secondo quarto dell’VIII secolo a.C., era una fondazione congiunta di due città dell’Eubea; alcuni graffiti attestano la presenza di Fenici e i reperti archeologici accertano l’importanza della fusione del ferro, di (probabile) provenienza elbana. Il sito prescelto si trova sull’isola vulcanica di Ischia, punto di contatto nella koinè per le pianure campane, ricche dal punto di vista agricolo e socialmente in via di sviluppo. Pitecussa fu preceduta da un vasto stanziamento miceneo sull’isola di Vivara, ancora più orientato al mare, poiché l’isoletta è priva d’acqua e quasi senza suolo coltivabile. Gli insediamenti cui diede origine e a cui trasmise in eredità le sue relazioni marittime, sorsero come sua peraia: Cuma, Napoli, Dicearchia, che divenne la romana Puteoli. Il passaggio tra la Campania e il mondo marittimo è stato un fenomeno costante, benché il punto di transito non fosse sempre ubicato nello stesso luogo (Frederiksen, 1984, capp. 2-4). Negli ultimi anni del VI secolo a.C., un’improvvisa carestia nell’isola di Tera condusse alla fondazione di una colonia su un’altra isola, al largo della Cirenaica (Cawkwell, 1992). Questo luogo sicuro nel mezzo della corrente della koinè fu l’antecedente della città di Cirene che, sebbene situata più all’interno, nel fertile altipiano del Gebel el-Achdar (cfr. par. 2.3), continuò a essere un portale verso il mondo esterno per un’agricoltura sviluppatasi rapidamente attraverso e grazie all’influsso dei coloni provenienti da tutto il mondo greco, che rapidamente soffocarono il gruppo egemone proveniente da Tera (Applebaum, 1979, cap. 2).
Esempi simili si potrebbero moltiplicare senza difficoltà: gli insediamenti greci, infatti, hanno un profilo istituzionale elevato che li rende abbastanza facilmente “visibili”, perfino dopo molto tempo (Bresson, Rouillard, 1993). Ma i processi che li sottendono hanno una storia molto più lunga. Ed è importante che questo, ancora una volta, non sia un modello da applicare soltanto al commercio “coloniale”: sembra che, nella tarda Età del bronzo, alcune piccole isole al largo delle coste mediterranee funzionassero con modalità che ricordano da vicino Vivara (Lolos, 1995). Poros, Idra e Spetses, isole che si trovano proprio in quella posizione, di recente sono state definite esempi notevoli di «isole di naviganti» (Jameson, Runnels, Van Andel, 1994, pp. 135-9). All’altro estremo della scala, anche le grandi metropoleis mediterranee sono risultate simili a questi diversi e variegati esiti della mobilità e della ridistribuzione. «O contadini, commercianti (emporoi), artisti (tektones), artigiani (demiourgoi), meteci, forestieri e isolani, venite qui, popolo tutto (leos)» così Aristofane (Pace 296) apostrofava la popolazione di Atene nel periodo di massimo splendore della polis come centro di una grande rete marittima.
La straordinaria varietà etnica della popolazione delle terre affacciate sul Mediterraneo è, dunque, una conseguenza della mobilità strutturale che abbiamo descritto. Gli snodi e i varchi attraverso i quali si producono i movimenti, e i luoghi in cui essi sono maggiormente visibili, mostrano chiaramente tale varietà. Ciò vale anche per la campagna, soprattutto in quelle microregioni che sono le isole, particolarmente aperte alla mobilità. Nella dalmata Brazza più di metà della popolazione può essere ricondotta, attraverso il cognome, a un’origine forestiera; e molti degli altri hanno cognomi che non offrono informazioni circa l’origine e possono quindi nascondere un numero ancora maggiore di immigranti (F. W. Carter, 1977). Nella zona lagunare sul fronte marittimo catalano-provenzale sono state rinvenute alcune tavolette di piombo databili al VI e al V secolo a.C. recanti incise alcune lettere riguardanti scambi commerciali. In maggioranza sono in greco, ma compaiono anche molti nomi non greci ed è evidente lo stretto collegamento con Etruschi e Celtiberi che prendevano anch’essi parte alla ridistribuzione. Documenti simili e del medesimo periodo sono emersi nell’ambito di realtà socioeconomiche strettamente paragonabili, ma nel Mar Nero nordoccidentale. In questa stessa regione, duemila anni più tardi, la popolazione della colonia genovese di Caffa era per il 5 per cento italiana e per il 60 per cento armena, con una quota consistente di Greci, ma queste proporzioni erano destinate a subire forti fluttuazioni (Balard, 1987, spec. p. 225).
La varietà etnica della popolazione è la più ovvia conseguenza della mobilità, ma da essa derivano anche le omogeneità culturali che rendono possibile un’antropologia sociale del Mediterraneo, cui ricorreremo nei prossimi due capitoli. È chiaro che non possiamo dipanare la trama di questa intricata massa di origini etniche, né quantificare la mobilità periodo per periodo e luogo per luogo. È estremamente probabile che essa sia stata minore negli angoli più remoti e in alcuni periodi sfavorevoli. Ma la nostra tesi è che non sia mai venuta meno. L’immobilità implicita nelle immagini convenzionali del ceto agrario non ha accomunato tutti i contadini del Mediterraneo e non ci si deve aspettare una continuità attraverso le generazioni per quanto riguarda la vita rurale a livello locale. Ma alcune forme di continuità in effetti ci sono, e i movimenti che abbiamo appena esplorato offrono una chiave per comprenderle. Se vi sono state caratteristiche ricorrenti nella storia del Mediterraneo, queste non sono il prodotto della nuda geografia della regione. Piuttosto, sorgono dai ritmi profondi della risposta umana all’ambiente fisico, i ritmi dell’intensificazione, della ridistribuzione… e della mobilità.

Titolo originale: The Corrupting Sea: A Study of Mediterranean History
© 2000 by Peregrine Horden and Nicholas Purcell
© 2024 by Carocci editore S.p.A., Roma