Anche se l’apartheid è il passato, esere bianchi o neri alla fine del Sudafrica del secolo scorso fa la differenza. Intingendo la penna nella storia del suo Paese, Damon Galgut, in questo Il buon dottore pubblicato dalle Edizioni e/o, fa un ritratto non solo della regione meno africana del continente ma di una intera classe sociale, la borghesia bianca disincantata e disillusa. Malgrado l’ambientazione non si tratta di un romanzo “politico”. Non è mai stato nelle corde di Damon Galgut, nato a Pretoria nel 1963. Il suo esordio letterario avviene a soli 17 anni con il romanzo Sinless Season, nel 1984. Il romanzo del 2003, The Good Doctor, ha vinto il Commonwealth Writers Prize per l’Africa ed è stato selezionato per il Man Booker Prize. Tra le sue ultime opere ricordiamo La Promessa, pubblicato sempre dalle Edizioni e/o, vincitore del Booker Prize 2021. Il romanzo si impernia sul rapporto tra Frank Eloff, diventato medico perché lo era anche suo padre e un suo giovane collega appena arrivato. Il dottor Eloff lavora presso un ospedale in rovina, privo di mezzi e persino di pazienti. La sua è tutt’altro che una missione. Il suo disincanto, in un tempo pressoché immobile dove non accade nulla, è la fotografia della debolezza del suo carattere. Non ha nemmeno la forza di cambiare, visto che rimanda all’infinito la decisione di andarsene. In questa mediocrità, tra compromessi e illusioni, rassegnazione e cinismo, Frank Eloff sopravvive più che vive. Fino al giorno in cui arriva nel suo ospedale, nella camera che è costretto a condividere e nella sua vita Laurence Waters, un neolaureato in medicina che è tutto quello che Frank non è più: giovane, ottimista e pieno di buone intenzioni. E nella selva politica e morale del Sudafrica, basta questo per fare del giovane medico una mina vagante. Anche perché in città qualcosa sta succedendo. Si vedono facce nuove, e se ne rivedono di vecchie. Corre voce che il Generale, il dittatore che governava ai tempi dell’apartheid, sia ancora vivo. E al locale di Mama si è installato un gruppo di militari agli ordini di uno spietato comandante, un uomo che Frank Eloff ha già incrociato e avrebbe preferito non incontrare mai più. Così, quando questo medico raccoglie la sfida che il giovane collega gli ha lanciato, senza rendersene conto compie un passo irreversibile in uno scenario di intrighi politici, passione e violenza, dove pericolosi fantasmi sono in agguato per regolare i conti di un passato doloroso. E così in questo avamposto ospedaliero in Sudafrica, una terra desolata oppressa dalla miseria e dalle violenze di bande di ex miliziani in cerca di potere, i due medici, diventati poi quasi amici nonostante le opposte visioni del mondo, vivono come sospesi in un clima di attesa. Fabio PolettiDamon GalgutIl buon dottoretraduzione dall’inglese di Valeria Raimondi2022 Edizioni e/opagine 256 euro 17

Il buon dottore

Per gentile concessione dell’autore Damon Galgut e delle Edizioni e/o pubblichiamo un estratto dal libro Il buon dottore.La prima volta che lo vidi pensai: non durerà.Ero seduto in ufficio, un tardo pomeriggio, e lui apparve all’improvviso sulla porta, con una valigia in mano e abiti semplici addosso – jeans e una camicia scura – con sopra il camice bianco. Sembrava giovane, smarrito e un po’ perplesso, ma non fu questo a farmi pensare che non sarebbe durato. Fu qualcos’altro, qualcosa che vidi nel suo volto.«Salve» disse. «È questo l’ospedale?».Aveva una voce inaspettatamente profonda per un uomo così alto ed esile.«Entra» risposi. «Posa la valigia».Entrò, ma non posò la valigia. La tenne stretta guardandosi intorno: i muri rosa, le sedie vuote, la scrivania polverosa nel- l’angolo, le piante gracili che appassivano nei vasi. Capii che sospettava a una specie di errore. Mi dispiacque per lui.«Sono Frank Eloff» dissi. «E io Laurence Waters». «Lo so».«Lo sai?».Pareva sorpreso che lo stessimo aspettando, anche se da giorni ci spediva fax che annunciavano il suo arrivo.«Siamo compagni di stanza» gli dissi. «Vieni, ti faccio strada».La camera era in un’altra palazzina. Per raggiungerla si doveva attraversare un terreno aperto, adiacente al parcheggio. Doveva essere passato di lì arrivando, eppure adesso guardava il sentiero in mezzo all’erba incolta e, in alto, gli alberi con il loro carico di foglie frastagliate penzoloni, come se non li avesse mai visti prima.Percorremmo il lungo corridoio che portava alla camera, dove fino a quel giorno avevo abitato e dormito da solo. Due letti, un armadio, un piccolo tappeto, una stampa alla parete, uno specchio, un divano verde, un tavolino basso di finto legno, una lampada. Era la dotazione standard, essenziale. Le poche camere occupate avevano tutte lo stesso aspetto, come in un qualunque, anonimo, squallido hotel. L’unica nota particolare era la disposizione dei mobili, ma io non mi ero mai dato la pena di spostare i miei fino a due giorni prima, quando mi avevano portato il secondo letto. Non avevo aggiunto nulla. Il mobilio, brutto e austero, era privo di personalità; su quello sfondo neutro, anche un pezzo di stoffa qualsiasi sarebbe stato rivelatore.«Puoi prendere quel letto» dissi. «Nell’armadio c’è spazio. Il bagno è dietro quella porta».«Ah. Sì. Bene». Ma ancora non mollava la valigia.Avevo saputo solo due settimane prima che avrei dovuto condividere la stanza con lui. La dottoressa Ngema mi aveva convocato per dirmelo. Non ne ero felice, ma non mi opposi. E nei giorni che seguirono mi abituai, mio malgrado, all’idea della coabitazione. Poteva non essere poi così male. Magari saremmo andati d’accordo, e forse sarebbe stato addirittura un bene avere un po’ di compagnia: la mia vita lì poteva anche cambiare in modo piacevole. Perciò in un certo senso cominciai ad aspettare con curiosità quel cambiamento. E in vista del suo arrivo avevo fatto alcuni preparativi per accoglierlo. Avevo sistemato il nuovo letto sotto la finestra e messo lenzuola pulite. Avevo liberato un paio di ripiani nell’armadio. Avevo spazzato e ripulito, cose che non faccio molto spesso.Ma adesso che lui era arrivato, attraverso i suoi occhi vedevo che i miei sforzi non avevano prodotto alcun risultato percepibile. La stanza era brutta e spoglia. E Laurence Waters non corrispondeva alla persona che mi ero raffigurato. Non so che cosa avessi immaginato, ma di certo non questo giovane mite dalla pelle ambrata, quasi un ragazzino ancora, che stava finalmente mettendo giù la valigia.Si tolse gli occhiali e li strofinò sulla manica. Se li rimise e disse stancamente: «Non capisco».«Che cosa?».«Questo posto».«L’ospedale?».«Non solo l’ospedale. Intendo…». Agitò la mano a indicareil mondo esterno. Intendeva la città oltre i muri dell’ospedale. «Hai chiesto tu di venire qui».«Ma non sapevo che fosse così. Perché?» chiese con un’urgenza improvvisa. «Non capisco».«Magari ne parliamo più tardi. Adesso sono di turno, dovrei tornare in ufficio».«Devo vedere la dottoressa Ngema» disse. «Mi sta aspettando».«Non preoccuparti. Puoi andarci domani mattina. Non c’è fretta».«Che cosa dovrei fare adesso?».«Quello che vuoi. Disfa la valigia, sistemati. Oppure vieni in ufficio con me. Fra un paio d’ore avrò finito».Lo lasciai solo e tornai indietro. Era indignato e abbattuto. Lo capivo, mi ero sentito anch’io così al mio arrivo. Venivi qui aspettandoti una cosa e te ne ritrovavi un’altra.Ti aspettavi di arrivare in un ospedale moderno e dinamico – di campagna, certo, e piccolo, ma in piena attività – in una cittadina operosa. Era il capoluogo di uno degli homeland di un tempo, perciò, a prescindere dalla moralità della politica che aveva fatto sorgere quel centro abitato, ti aspettavi di trovarti in un luogo pieno di uffici amministrativi e di movimento, di gente che andava e veniva. E quando deviavi dalla strada principale che andava verso il confine e imboccavi quella secondaria che conduceva qui all’ospedale, il posto, osservato da una certa distanza, poteva ancora sembrarti come te lo eri aspettato. C’era la strada principale che portava in centro, dove c’erano la fontana e la statua, le vetrine dei negozi e i marciapiedi, i lampioni e i palazzi. Sembrava tutto ordinato, calcolato e preciso. Non era un brutto posto.Poi arrivavi e cominciavi a capire. Il primo indizio poteva essere un dettaglio fastidioso; una crepa che correva lungo un muro altrimenti intatto, o una serie di finestre rotte in un ufficio davanti al quale ti capitava di passare. Oppure il fatto che la fontana fosse asciutta e con la vasca piena di sabbia. E rallentavi, guardandoti attorno con un vago senso di ansia, e all’improvviso tutto diventava chiaro. Le erbacce negli interstizi fra marciapiedi e mattoni, l’erba che cresceva qua e là per strada, le lampadine fulminate e i negozi vuoti dietro le vetrine opache, e la muffa, l’intonaco con le bolle d’umidità e le macchie di pioggia su ogni superficie, e il lento deteriorarsi degli edifici, che a volte sembravano sbriciolarsi e altre volte proprio cadere a pezzi. E non sapevi più dov’eri.E poi non c’era nessuno in giro. Quella era l’ultima cosa che notavi, anche se dopo ti rendevi conto che era stata la prima a darti una dolorosa sensazione di disagio: la città era un deserto. Certo, c’era un’auto che percorreva lentamente una via laterale, un paio di uomini in divisa passeggiavano sul marciapiede e una sagoma ciondolava lungo un sentiero tra l’erba alta di un campo, ma per lo più il luogo era deserto. Disabitato. Niente animazione, nessun movimento.© Damon Galgut 2003© 2022 by Edizioni e/o

Il buon dottore