Avevamo già incontrato in questa rubrica lo scrittore marocchino ma da tempo residente in Olanda Hafid Bouazza, autore di Paravion il luogo immaginario dove tutti i migranti vogliono approdare e fa niente se è solo la dicitura per l’affrancatura di posta aerea. In questo I piedi di Abdullah, il suo libro di esordio, una raccolta di racconti usciti per Carbonio Editore, Hafid Bouazza torna alle sue origini, alle sue radici. Il tono è all’apparenza più lieve. Ma c’è molta profondità nel raccontare di questo villaggio popolato di pescatori, imam pieni di pruderie che guidano affollate moschee, bordelli altrettanto frequentati, donne inarrivabili o semplici architravi familiari, mendicanti e istinti sessuali di bambini. È il ricordo della vita di prima, ma vista attraverso gli occhi di un adulto che ha attraversato il mare per approdare in Occidente e che ancora una volta si gira a guardare dietro di sé. Per raccontare e ricordare e non disperdere la memoria. Fabio Poletti

Hafid Bouazza
I piedi di Abdullah
Traduzione di Claudia Di Palermo e Valentina Freschi
2020 Carbonio Editore
pagine 142 euro 14,50

Per gentile concessione dell’autore Hafid Bouazza e di Carbonio Editore pubblichiamo un estratto del libro I piedi di Abdullah.

Un mese dopo la sera ci sorprese in cima a una collina: tre ombre ben delineate sullo sfondo di un tramonto senza nuvole. Con le dita appiccicose per la raccolta delle olive, contavamo la somma che quel lavoro ci aveva fruttato. Trenta dirham. Trenta dirham a testa. Trenta dirham erano abbastanza per pagarci dei favori sessuali.
Khadrun, Mohand e io eravamo ragazzini entrati in quell’età dominata dall’ossessione per il sesso. Corrugando meticoloso la fronte, Mohand contava respirando tra le labbra e sento ancora distintamente il suo ansimare. Khadrun invece è solo una presenza frusciante, un ulivo camuffato – quel biblico riconteggio richiede una terza per- sona. Io ero il più piccolo e il più basso dei tre, ma dall’aspetto nessuno di noi sembrava piccolo. Il clima del Marocco favorisce la maturazione dei bambini. La nostra pelle era più fico che oliva, avevamo perso quella morbidezza così amata dall’imam della scuola della moschea e dai giovani del paese in età da matrimonio. Ormai eravamo troppo grandi per il grembo dell’imam, che doveva insegnarci l’alfabeto arabo e qualche verso del Corano, e su quella non sempre immacolata djellaba che un tempo aveva ospitato le nostre natiche, ora sedevano altri bambini – la loro memoria stimolata dalla silenziosa estasi dell’uomo. Per i giovani era tempo di dedicarsi, nel talamo nuziale, all’altro sesso. Tanto presto eravamo esposti ai bisogni della carne che non c’era da meravigliarsi se a dieci, dodici anni cadevamo in preda a quel prurito insopportabile.
La sorella di Mohand, una ragazza precoce (per dirla con un eufemismo) di nome Batul, aveva governato a lungo i nostri sogni con il seno prorompente e la poesia dei suoi fianchi. E i rari sfioramenti che concedeva a noi (suo fratello incluso) erano miseramente eterei in confronto alla mostruosità di quei sogni. Rigonfiamenti improvvisi trovavano sublimazione in oscenità su Batul e sulle sue malefatte non del tutto campate in aria con Mohand, e sui nostri possibili corpo a corpo con lei – se solo il mondo fosse stato indulgente e disposto a distogliere lo sguardo fischiettando in un istante di paradisiache possibilità. Avevo imparato in fretta che l’erezione è un fatto mentale.
Il paese portava il nome del suo proprietario: Bertollo, un grassone burbero che vedevamo solo una volta al mese quando veniva a riscuotere l’affitto. Dopodiché scendeva giù dalla collina con il suo motorino, un casco rosso sopra al turbante, borbottando (una probabile forma di contabilità orale). È la comparsa fissa in tutti i ricordi legati a quel paesino lontano, dove di certo scende ancora dalla collina in motorino e continuerà a farlo in eterno, tra gli ulivi in lutto, mentre il sole che tramonta schiocca un bacio luminoso sulla rotondità del suo casco liscio e fiero. E finché persiste il mio ricordo, anche il bacio perdura.
Era un paesino allegro con tanto di scemo del villaggio e moschea. Stranamente il matto locale viene allontanato molto in fretta dalla mia ricostruzione, con o senza la camicia di forza. Ricordo solo che, pur essendo muto, riusciva a produrre un’appassionata sfilza di ingiurie, per quanto sbriciolate dai suoi difetti di pronuncia. La rabbia gli gonfiava pericolosamente le arterie.
Il paese aveva una sola fontana, una pompa verde sputacchiante che veniva utilizzata da tutti gli abitanti. Ogni giorno, durante la siesta, Batul era accovacciata accanto a quella fontana e rimaneva irrimediabilmente coinvolta in una lite sull’ordine delle persone in attesa. Con l’alzarsi dei toni della lite, a suon di spassosi doppi sensi femminili, ecco che anche lei si solleva poco a poco dalla sua posizione china. Abdullah, un ragazzo dalla testa rasata, sporco, proveniente da una famiglia in cui tutti i maschi si chiamano Abdullah, con i baffi e un’aureola di fedeli mosche, passa di lì seduto a cavalcioni sul suo asino (una bestia magra, rognosa, paziente) e allunga una pacca sulle natiche generose di Batul per ricomparire poco dopo col naso insanguinato (mosche tremanti sul labbro superiore): Mohand non sopporta che si conceda certe libertà con la sua casta sorella. Noi stiamo a guardare: noi, ovviamente, abbiamo il suo permesso, uniti come siamo da un’ancora inutilizzata virilità di cui la popolazione femminile un giorno ci sarà riconoscente.
Da qualche parte, in un angolo della mia memoria che diventa sempre più affollato, Zalanbur ciabatta senza meta, canticchiando, con indosso il solito dolcevita di lana verde: un vero amico dei mocciosi che con molto piacere cerca di iniziare alle funzioni dell’anatomia maschile. Forse distorta dai miei ricordi, chissà, la sua è piuttosto robusta. Lo so benissimo. Ma a quanto pare non sono più in grado di suscitare il suo interesse (ho undici anni ormai): per me ha solo un sorriso e un cenno di passata intimità.

Titolo originale De voeten van Abdullah
© 2002 by Hafid Bouazza
Originally published in 2002 by Uitgeverij Prometheus, Amsterdam
© 2017 Carbonio Editore srl, Milano