Quarant’anni di storia personale e della Nigeria raccontati in una settimana. Costrette con la violenza (dagli uomini) due donne africane, così diverse, ma alla fine così uguali, intrecciano la propria storia con quella del Paese africano scivolato in un clima di paura incontrollata. È una storia tutta al femminile quella raccontata nel suo romanzo d’esordio da Cheluchi Onyemelukwe-Onuobia, avvocata e docente universitaria, specializzata in temi inerenti la salute e la violenza di genere, soprattutto su donne e bambini. In questo Due vite, due donne, appena pubblicato dalle Edizioni e/o, si esprime tutta la sensibilità di una delle nuove protagoniste della letteratura africana, vincitrice per questo libro del Nigeria Prize For Literature. Al centro del romanzo due donne che si raccontano, partendo da quarant’anni prima, dagli Anni Settanta, quando giovanissime inseguivano i propri sogni ed aspiravano a una vita diversa, affrancate da una società maschilista e violenta di cui saranno vittime da adulte, in un momento che le troverà riunite in una stanza, sequestrate in attesa che i loro familiari paghino il riscatto. Sospese dalle loro azioni quotidiane in un tempo che si fa limbo, le due donne inizieranno a raccontare le loro vite a partire dalla città di Enugu dove la giovane Nwabulu sogna di diventare una dattilografa, mentre sopporta le infinite faccende che le sono affidate dai suoi datori di lavoro. Fa la domestica dall’età di dieci anni, anche se alta, bella e innamorata del figlio di un uomo ricco. Istruita e privilegiata, Julie è invece una donna moderna. Vive da sola ed è felice di collezionare i gioielli d’oro che Eugene, innamorato, le porta, ma non ha intenzione di diventare la sua seconda moglie. È solo il punto di partenza per queste due donne, che si raccontano senza nascondersi, in attesa di un epilogo per niente scontato. Fabio PolettiCheluchi Onyemelukwe-OnuobiaDue vite, due donnetraduzione dall’inglese di Elisa Banfi2022 Edizioni e/opagine 304 euro 18

Per gentile concessione dell’autrice Cheluchi Onyemelukwe-Onuobia e delle Edizioni e/o pubblichiamo un estratto dal libro Due vite, due donne.PROLOGO2011Dobbiamo fare qualcosa per passare il tempo, pensavo. Due donne in una stanza, mani e piedi legati.Non vedevo come poter fuggire. I nodi non riuscivo a immaginare di scioglierli, neppure avendo a disposizione cent’anni. E se anche ci fossimo riuscite, la stanzetta aveva solo una porta. Ogni volta che entravano e uscivano, sentivo il clic di un lucchetto. L’unica finestra era troppo piccola per farci passare una delle mie cosce, figuriamoci tutto il corpo. E comunque non avrei potuto mettermi in salvo correndo: a prescindere dal fatto che ero sovrappeso, bisognava tener conto delle mie ginocchia malandate. Insomma, non ci sarebbe stata un’evasione come quelle dei film.Né, come nei film, ci aspettavamo di essere salvate dalla polizia, ad armi spianate. Si diceva che a volte fosse proprio la polizia a consigliare alla famiglia del sequestrato di pagare il riscatto, per evitare che gli facessero del male. Non avevano le risorse per dare la caccia ai rapitori e nemmeno una seria motivazione. Girava voce, perfino, che in certi casi la polizia fosse coinvolta nei sequestri. Dunque l’unica speranza, per noi come per molte vittime di rapimento in questo paese, era che i nostri cari trovassero i soldi.Sul momento ero terrorizzata. In macchina mi ero ribellata, mentre cercavano di incappucciarmi, di legarmi le mani con cui mollavo pugni alla cieca. Mi mancava l’aria, schiacciata com’ero in uno spazio in cui non sarei entrata nemmeno da ragazzina. Stavo per morire. Con la pistola premuta nellaschiena, su una macchina che partiva a tutta velocità in una direzione che non ero in grado di stabilire, ero certa che sarei morta. Afam, mio figlio, il suo matrimonio… Come avrebbe fatto?Ma ormai avevo superato quella paura viscerale e naturale, che aveva lasciato spazio a una tranquillità più pragmatica. Non c’era nulla che facesse cascare le orecchie al sentirlo e nulla che facesse piangere sangue invece di lacrime al vederlo. Magari ne saremmo uscite vive, come altri di cui avevo sentito parlare. Almeno ci avevano tolto il cappuccio. La mia amica Obiageli mi aveva raccontato di un uomo che era rimasto bendato per undici giorni. Come devono essere, undici giorni di buio e cecità?Senza il cappuccio e con le mani slegate, la situazione era diventata più sopportabile. Ci davano da mangiare, pane bianco al mattino, pane bianco al pomeriggio e pane bianco alla sera. A casa non lo mangiavo, il pane bianco, solo quello integrale, ogni tanto. Il dottore mi aveva raccomandato di fare attenzione alla glicemia perché ero prediabetica e, dato che mio padre era morto di diabete, sapevo che i miei geni cospiravano contro di me e solo io potevo impedirgli di vincere. Perciò quella mattina mi lamentai, quando portarono ancora pane.Mi chiesero se pensavo di essere in un hotel.«Mamma, se i tuoi non si sbrigano a mettere insieme i soldi» disse il ragazzino dall’ingannevole voce sommessa, «smetti di mangiare del tutto. Dove pensi che li prendiamo i soldi per comprare questo pane?». Aveva alzato la voce, per la rabbia. Era la prima volta che manifestava un’emozione.«Scusami» gli dissi, con la sensazione di essere una bambina viziata che viene sgridata. E capii che era meglio non continuare con le altre lamentele che avevo sulla mia lista: la stanza era calda e umida. Le persone in carne come me tendevano a sudare molto. Se non potevo fare il bagno, avrei puzzato e la stanza pure. Potevano concederci almeno un po’ di tempo per fare il bagno, per lavarci i denti? E magari slegarci le gambe? Stare sedute nella stessa posizione o sdraiate con le gambe legate non era la cosa migliore per due donne, soprattutto per quella che aveva già imboccato la via della vecchiaia. E poi era molto sgradevole trattenere la pipì, soprattutto per una donna della mia età, i cui visceri si erano spostati dalla posizione che il Creatore gli aveva destinato all’inizio. Inoltre non era giusto che ci stessero così addosso, quando volevamo scaricarci. Giovani com’erano, avrebbero potuto essere i miei nipoti, se avessi avuto figli all’età di alcune mie amiche. E poi di notte si sentiva sempre un gatto che miagolava, mi faceva venire la pelle d’oca dappertutto. Non potevano trovare una soluzione? Da ultimo, avrei preferito che non mi chiamassero Mamma. Non ero la loro madre, lei non l’avrebbero trattata così. Lo speravo, almeno.Però gli dissi: «Sono ipertesa. Ho bisogno delle mie medicine. È possibile fare qualcosa?».«Tipo cosa?» mi rispose. Era una domanda retorica. La sua voce e il suo viso mi avvisarono che stavo oltrepassando un confine invisibile. «Fossi in te, mi metterei a pregare che i tuoi portino i soldi, piuttosto». Al che ci voltò le spalle e sparì, lasciando ai suoi lacchè il compito di chiuderci dentro.Allora guardai Nwabulu. Potevamo parlare perché non eravamo imbavagliate, e dovevamo pur passare il tempo. «Raccontami ancora qualcosa di te» le dissi, a mo’ di incoraggiamento. «Abbiamo tutto il tempo che vogliamo».Mi sembrò sorpresa. Non doveva essere quello che si aspettava di sentirsi chiedere in una situazione del genere. Ma che altro c’era, da fare? Dopo aver passato il primo giorno a lamentarci di quello che ci era capitato, delle decisioni sbagliate che ci avevano portate dove eravamo, di fatto non c’era altro da dire sul nostro rapimento. «Saremo bloccate qui per chissà quanto. E come dice la mia amica Obiageli, non c’è niente di meglio di una bella storia per ammazzare il tempo».© 2019 by Cheluchi Onyemelukwe© 2022 by Edizioni e/o