Sull’accoglienza dei richiedenti asilo in Europa non si fa che litigare. I Paesi del blocco di Visegrad non ne vogliono sapere. L’Italia di Giorgia Meloni e Matteo Salvini tira il freno. Ma all’Italia va pure il merito di aver tracciato una rotta, dal 2015, dopo la crisi economica, dopo la fuga in massa dalla Siria sconvolta dalla guerra civile, nell’aver attualizzato i corridoi umanitari. Si tratta di ponti aerei e navali approntati dalla società civile, in collaborazione con lo stato centrale che firma gli accordi internazionali, per far arrivare in tutta sicurezza i richiedenti asilo. Alla società civile, e alle sue strutture di volontariato, il compito poi di accompagnare i profughi in un percorso di integrazione sociale, fornendo alloggio e sussistenza, istruzione e lavoro. Di tutto questo si occupa in modo approfondito il libro Corridoi umanitari Una risposta a una crisi planetaria, scritto da Roberto Morozzo della Rocca, ordinario di Storia Contemporanea all’Università di Roma Tre, e pubblicato dalle Edizioni San Paolo. Quanto sia necessario uno strumento come i corridoi umanitari, sono i numeri a dirlo. Secondo l’UNHCR, l’agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di richiedenti asilo, solo l’anno scorso 102 milioni di profughi sono scappati dal loro Paese. Una delle mete più ambite è l’Europa. E almeno a parole, i suoi principali leader sembrano entusiasti di una regolamentata collaborazione tra volontariato e stato centrale per affrontare una crisi che solo in modo velleitario si può definire emergenziale, visti i numeri anno dopo anno in grande aumento. L’ex cancelliera tedesca Angela Merkel considerava i corridoi umanitari «uno strumento fondamentale della nostra politica, poiché impediscono che i profughi cadano nelle mani dei trafficanti di esseri umani». Il presidente francese Emmanuel Macron li ha più volte definiti «un modello politico d’immigrazione legale». Il nostro presidente Sergio Mattarella vede nella istituzione dei corridoi umanitari il segno che l’Italia «è all’avanguardia nella solidarietà». Un plauso non poteva non arrivare anche da Papa Francesco, che vede nei corridoi umanitari «un segno concreto di impegno per la pace e la vita, che unisce la solidarietà e la sicurezza». Il richiamo del Papa ci consente di sottolineare che in Italia è soprattutto il volontariato cattolico a guidare e gestire i corridoi umanitari. La collaborazione fra la Comunità di Sant’Egidio, la Tavola Valdese e la Federazione delle Chiese evangeliche in Italia marca infatti l’origine dei corridoi, concepiti fra 2013 e 2015 sull’onda delle grandi mugrazioni degli Anni Dieci. All’orizzonte, ci spiega in questo libro Roberto Morozzo della Rocca, si affacciano nuove necessità se non si vogliono veder aumentare le vittime di chi si mette per mare su carrette che difficilmente arrivano in porto o cerca di attraversate i Balcani. E le nuove vie che devono essere aperte con i corridoi umanitari, sono quelle che conosciamo tutti: la Libia approdo dall’Africa sahariana e subsahariana, il Libano con i profughi siriani, la Grecia che porta alla Via dei Balcani e l’Afghanistan, lasciato a sé stesso dagli americani e ora nuovamente in mano ai talebani. Fabio Poletti
Roberto Morozzo della Rocca Corridoi umanitari. Una risposta a una crisi planetaria 2023 San Paolo Edizioni pagine 208 euro 18Per gentile concessione dell’autore Roberto Morozzo della Rocca e di San Paolo Edizioni pubblichiamo un estratto dal libro Corridoi umanitari.
I corridoi umanitari rappresentano un’alternativa legale e sicura alla tratta di esseri umani lungo le rotte mediterranee. Salvano migliaia di vite, proteggono persone vulnerabili, scaturiscono dalla società civile, non costano allo Stato. Progettati in Italia verso il 2015, e proposti all’Europa, innovano la vita internazionale. Non sono una start up di successo. Vengono da lontano. Hanno radici storiche, immerse nel contesto mediterraneo. C’è l’emergenza migratoria degli anni Dieci. Ma anche la sensibilità particolare degli ideatori, maturata lungo decenni. Una questione preliminare, solo in apparenza lessicale. “Migranti”, “profughi”, “rifugiati” sono termini che vorrebbero esprimere realtà diverse. Ma nel flusso di genti che tentano di attraversare il Mediterraneo per toccare la sponda Nord queste differenziazioni si perdono. Migranti economici bisognosi di lavoro, profughi da contesti di violenza e persecuzione, richiedenti asilo, ossia potenziali rifugiati, non sono ben distinguibili. Le migrazioni marittime extralegali verso l’Europa sono una corrente indistinta di uomini e donne di tutte le età in fuga da guerre e violenze, miserie e povertà, disastri naturali e cambiamenti climatici, disuguaglianze economiche e sottrazione neocoloniale di terre e risorse. I cosiddetti push factors, ossia fattori che spingono a emigrare, sono quasi sempre multipli. Nelle vicende personali si sovrappongono. Un saheliano abbandona la sua terra perché non può più coltivarla, ma non per questo è un semplice migrante economico. Il suo lavoro può esser venuto meno per l’avanzata del deserto, cioè per un disastro ambientale, ma anche per una delle non infrequenti crisi belliche e securitarie, o per l’estensione territoriale di gruppi islamici connessi ad Al Qaeda o ISIS, o per tutti questi motivi congiuntamente. Un siriano fugge dalla guerra per sottrarsi alla violenza bellica, ma anche alla difficoltà di sopravvivere in un contesto d’insicurezza alimentare e lavorativa. Un nigeriano tenta l’emigrazione immaginando di fare fortuna e lasciarsi alle spalle una vita di stenti, ma anche per l’appropriazione di terre e risorse naturali da parte di multinazionali del cibo o dell’energia, oppure a causa del terrorismo di Boko Haram. Pressoché tutti gli studiosi di emigrazione concordano sulla difficoltà di distinguere tra migranti economici da una parte, e profughi e rifugiati dall’altra11. Al contrario, gli Stati sostengono la distinzione. Davanti a flussi e ingressi non regolari e non desiderati, le persone classificate come migranti economici possono subito essere considerate dagli Stati in condizione d’illegalità, e dunque rigettate ed espulse. Invece i richiedenti asilo devono essere tollerati e anzi protetti finché la loro domanda non viene giudicata; se l’istanza è accolta, essi vanno ulteriormente tutelati. Gli Stati ritengono loro interesse restringere il più possibile la categoria dei rifugiati per avere mano libera nei respingimenti di tutti gli altri migranti, identificati come economici. I corridoi umanitari sono rivolti indistintamente a quanti necessitano protezione internazionale. Guardano alle persone con speciale attenzione alla loro vulnerabilità e alla loro storia. La scelta ricade su chi, in condizione di fragilità, non può ritornare nel suo paese senza rischiare la vita e al tempo stesso non ha chance di radicarsi là dove si è arenato nel suo allontanamento dalla terra d’origine; e senza i corridoi si rivolgerebbe ai trafficanti per arrivare in Europa. Mancano infatti percorsi legali per accedere al territorio europeo e chiedere asilo. C’è qui una contraddizione tutta europea. Si tratta della inesigibilità, se non ci si trova in un paese dell’Unione, di diritti umani di cui pure paradossalmente l’Europa si è fatta paladina nell’accezione più estesa che esista al mondo. Non c’è sistema politico più aperto di quello della UE, in tema di protezione internazionale e di diritto all’asilo. Ma questo sistema è fruibile solo per quella minoranza di aspiranti rifugiati che in Europa già ci sono, e possono dunque richiedere asilo. La sua universalità è solo apparente. Andiamo alla storia migratoria recente. Verso il 2010, nel pieno della grande recessione indotta dalla crisi del mercato americano dei subprime, l’Europa chiudeva i residui scarni varchi nazionali all’immigrazione per lavoro da paesi esterni all’Unione. Se negli anni successivi il nu-mero dei residenti europei nati fuori dal continente, ossia extracomunitari di origine, continuerà a lievitare, lo si dovrà ai legittimi ricongiungimenti familiari e ai più o meno perigliosi ingressi di richiedenti asilo, di cui si tenta in vari modi di scoraggiare la venuta sul suolo europeo affinché non possano presentare domanda di protezione internazionale. Non c’è una politica dei visti, semplicemente non se ne danno. Come non c’è un sistema di sponsorship per introdurre persone dall’esterno, che pure in precedenza era esistito in vari paesi. Esemplificativa, a questo proposito, la parabola dell’Italia. Paese d’immigrazione tardiva rispetto ad altri grandi Stati europei occidentali, tra 1990 e 2010 l’Italia ha assorbito gruppi consistenti di immigrati economici mediante annuali decreti che ne stabilivano i flussi. Con la grande recessione, e la conseguente disoccupazione, questa prassi finiva, venendosi a chiudere l’unica via legale d’immigrazione programmata. Nel 2008 s’è avuto l’ultimo decreto-flussi consistente (172.000 permessi di soggiorno). Pressoché chiusa l’immigrazione economica, altre vie d’ingresso legali nella penisola non ve n’erano. Chi entrava per chiedere asilo doveva farlo clandestinamente, attraverso valichi di terra o sfidando le acque del Mediterraneo. © EDIZIONI SAN PAOLO s.r.l., 2023