Essere invisibili, si sa, è una forma di autodifesa. È quella che adotta Soot, un ragazzino afroamericano della Carolina del Nord, dopo che il padre William viene ucciso da un poliziotto, solo perché non aveva i documenti con sè. Da qui si dipana la storia di Che razza di libro!, scritto da Jason Mott e pubblicato in Italia dalle edizioni NN. Jason Mott è uno scrittore afroamericano, autore di romanzi e poesie. Che razza di libro! è stato selezionato in diversi premi, tra cui il Carnegie Medals for Excellence in Fiction, l’Aspen Words Literary Prize, il Joyce Carol Oates Prize. Ha vinto il Sir Walter Raleigh Prize for Fiction e il National Book Award for Fiction 2021. La storia di Soot si evolve e incrocia quella di uno scrittore americano, a suo modo anche lui invisibile e insensibile davanti alla storia di un bambino afroamericano, colpito a morte – per errore, si dice sempre così – da un poliziotto. Lo scrittore ha appena pubblicato un libro di successo: durante il tour promozionale, fra interviste, avventure amorose e sbronze colossali, incontra un ragazzino dalla pelle nerissima che da quel momento in poi lo segue come un’ombra. A ogni tappa il Ragazzino racconta qualcosa di sé, affermando che i suoi genitori gli hanno insegnato a diventare invisibile, per proteggersi dalla brutalità del mondo. E in effetti, lo scrittore è l’unico in grado di vederlo, ma poiché è affetto da una strana malattia che gli impedisce di distinguere la realtà dal sogno è certo che si tratti di una semplice allucinazione. Ben presto, però, le sue visioni hanno il sopravvento, mettendolo di fronte a un passato che da sempre cerca di sfuggire, una verità che preme per liberarsi e ritrovare corpo e voce. Che razza di libro! è la storia di un bambino che vede nell’invisibilità una promessa di vita, e di un uomo che vorrebbe uscire dalla propria pelle, per nascondersi dalla violenza. Con una lingua brillante e arguta, Jason Mott mette a nudo discriminazione e pregiudizio, mostrandoci la possibilità di un mondo dove il colore non è più un confine. Fabio Poletti

Jason Mott
Che razza di libro!
traduzione di Valentina Daniele
2022 NN
pagine 320 euro 19

Per gentile concessione dell’autore Jason Mott e dell’editore NN pubblichiamo un estratto da Che razza di libro!

Fuori dall’aeroporto, Renny mi guida fino a una lunga limousine nera. Apre la portiera, io salgo e trovo il ragazzino nero della colazione di tante città addietro, seduto di fronte a me, con quella sua pelle assurdamente scura e il sorriso assurdamente luminoso.
«Ehm… ciao» dico, sorridendo a mia volta.
«Ehi» dice il Ragazzino, agitando quella sua mano scura. «Che si dice?».
«Non molto» rispondo io. «Vuoi scusarmi un momento?». Il Ragazzino annuisce. «Certo, fai pure».
Esco dall’auto e mi rivolgo a Renny. «Renny?».
«Sì?» dice lui. Sembra preoccupato. Confuso. Forse perfino un po’ spaventato. Come se avesse appena visto un uomo adulto parlare con qualcuno che non c’è. È un’espressione che non mi è nuova.
«Quindi siamo tu e io in questo viaggio, giusto Renny?».
«Cosa?».
«Sì, lo so, è stupido. Ma assecondami, se non ti dispiace. Siamo solo tu e io in questo giro, oggi, giusto? Non c’è nessun altro con noi?». Con un lieve cenno del capo indico il retro della limousine. L’ho già fatto altre volte. È un vecchio trucco. Il punto è inclinare la testa quel tanto che basta da indirizzare lo sguardo verso la persona o la cosa che potrebbe essere un prodotto della mia immaginazione, ma senza esagerare. In questo modo, se il bambino esiste davvero, lui me lo confermerà e possiamo andare avanti senza che io faccia la figura di quello troppo strano. E se il bambino è solo un parto della mia immaginazione, posso negare di aver inclinato la testa e lui passerà il resto della serata a chiedersi se è lui il pazzo, invece di chiedersi se lo sono io.
È un sistema elaborato, ma funziona.
Renny si china a guardare, poi rialza la testa. «Siamo solo lei e io» dice lentamente, in tono neutro. Il tono che la gente adopera in presenza di cani che non conosce e di persone che hanno preso troppe medicine.
Rimetto la testa nell’auto e chiudo gli occhi, una volta. Il Ragazzino è ancora lì, con la sua pelle scura, e mi saluta con un accenno di malizia.
«Tutto bene?» chiede Renny.
«Benissimo» dico. «Tutto benissimo. Questa macchina ha un vetro divisorio?».
«Certo» risponde Renny.
«Bene» dico. «Probabilmente lo terrò su per un po’. Di solito non lo faccio perché non voglio sembrare snob. Ma è stato un lungo volo e…».
Renny mi liquida con un gesto. «Non c’è bisogno di spiegazioni» dice. «Capisco. Guido questa macchina da dieci anni e so come funziona. Prima viaggiavo anche io in limousine, e capisco benissimo».
Voglio chiedere a Renny come mai dal viaggiare in limousine è finito a guidarle. C’è un antefatto, e la roba interessante sta negli antefatti. Ma quello di Renny dovrà aspettare un altro po’.
Salgo sul sedile posteriore, chiudo la portiera, alzo il vetro divisorio e mi lascio andare all’avventura che mi aspetta.
«Bene, Ragazzino» comincio.
«Ti stavo aspettando».
«Non ne dubito affatto, Ragazzino. Allora, vuoi dirmi qualcosa di te?».
Il Ragazzino ride. «Ehi, non vuoi sapere perché quel tizio non mi vede?». C’è una chiara nota di orgoglio nella sua voce, come se avesse ingannato tutto il mondo ma non potesse sopportare di non condividere il suo segreto con qualcuno. Per sua fortuna quel segreto lo conosco già.
«So già perché non può vederti».
«Davvero?».
«Certo, Ragazzino. Per me non è una novità. Sono in giro da un bel po’. Ho già dato fuoco alle polveri».
«Come parli strano».
«Non sei il primo che me lo dice». Appoggio la testa allo schienale e chiudo gli occhi, una cosa che a volte fa retrocedere le mie fantasticherie. A volte no. «Hai un bell’accento. Sembra meridionale. Del North Carolina, direi».
«Come lo sai?» dice lui. All’improvviso cerca di nascondere la cadenza, ma non ci riesce.
«Perché li riconosco, i miei. Sono del North Cakalak». «Non sembra».
«Perché mi sono allenato a parlare senza accento». «Perché?».
Apro gli occhi e lo guardo a lungo. Il sorriso si è un po’ smorzato, come se avesse qualcosa per la testa, qualcosa che c’entra col motivo per cui parlo come parlo. Ma non ho intenzione di pensarci adesso.
«Be’» dice il Ragazzino «non ti dispiacere perché quel tizio non riesce a vedermi. È solo che…».
«Lo so».
«Cosa sai?».
«So già perché non ti vede».
«Ah sì?».
«Tu non esisti».
Le sopracciglia del Ragazzino si tuffano verso il basso, confuse. Poi lui ride. Forte, a lungo. La risata sgorga dal suo collo scuro, fuoriesce dai denti candidi ed è il suono di tutte le cose belle mai sentite in vita mia. Vorrei che questo
ragazzino potesse ridere per sempre. «Io non esisto?» chiede, quando finalmente smette di ridere tanto da poter parlare.
«Non c’è problema» dico. «Non c’è bisogno di esistere davvero per contare. Certo, aiuta, ma non è necessario».
Il Ragazzino ride di nuovo. «E perché non esisto?».
«Perché ho una malattia. Vedo certe cose. Anche persone. Dicono che è una specie di valvola di sfogo della mente, probabilmente causata da un trauma. Ma io non ci casco. Non ho subìto alcun trauma nella vita. Insomma, la mia dose di sfortuna l’ho avuta, ma niente di importante. Niente che valga un film su Lifetime Network o cose del genere, non so se mi spiego».
«Ahah! Naa, non è quello. Vedere cose che non ci sono… è una cosa che fanno i matti. E tu non sei matto».
«È sempre bello quando un parto della tua immaginazione ti assicura che non sei matto».
«Naa, non volevo dire questo» dice il Ragazzino. Mi preme la nocca nel braccio. «Voglio dire che esisto eccome. Quindi tu non sei pazzo. Se pensassi di vedere cose che non ci sono, probabilmente me la farei sotto. No, sicuramente me la farei sotto».

Titolo originale: Hell of a Book
© 2021 Jason Mott
© 2022 Enne Enne Editore, Milano