Chapeo è parola introducibile, ma che ai Caraibi capiscono tutti. Letteralmente sarebbe strappare le erbacce, liberare i campi dalla canna da zucchero. Più prosaicamente ha a che fare con i raggiri, gli ammiccamenti, le esche sessuali. Materia che avvolge questo libro, e non solo quello, di Johan Mijail, performer, ricercatore sociale e scrittore, attivista queer nato a Santo Domingo nel 1990, egli stesso emblema della diversity. Chapeo è il titolo del suo libro, pubblicato da Arcoiris, romanzo dalla scrittura barocca e vertiginosa, magistralmente tradotto da Raúl Zecca Castel. In appena 116 pagine che ne valgono mille, il personaggio principale del libro e il suo amico girano per la capitale dominicana alla ricerca di avventure sessuali. Il protagonista è pure un grande affabulatore dalla lingua tagliente, che talvolta spaventa i suoi amanti, mentre infarcisce i discorsi di mille ricordi e citazioni, dal grande filosofo francese Michel Foucault all’ultima attricetta televisiva. Ne esce un caleidoscopio che ha la forza dei fuochi d’artificio, dove dei Caraibi dominicani sembra di sentire pure l’afrore di quei corpi nudi e sudati, schiaffeggiati dal sole dei Tropici. In una intervista rilasciata poco tempo fa al quotidiano Il Manifesto Johan Mijail racconta il perimetro della sua opera: «Attorno al chapeo, c’è un mondo legato ai corpi, che è uno spazio di relazioni economiche ma anche una sfera culturale e dell’immaginario, al di là della classica prostituzione: penso ai bugarrones, uomini che non sono gay ma cercano sesso con uomini gay; i sanky panki, quelli a caccia di prede nelle spiagge e fanno i macho se trovano turisti uomini e romantici con le donne. È un mondo che si alimenta di mille rivoli, sempre legato a una trattativa, che negozia insieme i fili dell’economia, della sensualità e della sessualità». È il corpo, allora, il vero protagonista di questo libro. Un corpo nero e caraibico che fu schiavo e mai redento, oltre ogni distinzione di sesso, di genere o di classe. Fabio Poletti
Johan Mijail Chapeo traduzione e cura di Raúl Zecca Castel 2022 Arcoiris pagine 116 euro 12Per gentile concessione dell’aut* Johan Mijail e dell’editore Arcoiris pubblichiamo un estratto dal libro Chapeo.
Ci dissero di andare a farci una scopata. Dissi a Luis che dovevamo dire di sì e anche lui mi disse di sì. I ragazzi arrivarono a bordo di una Toyota che mi ricordava in tutto i Caraibi, con il loro arcipelago appiccicoso e complesso, con il loro mare e l’oceano a rimescolare tutto, con la loro magia di confine o possibilità; i Caraibi oltre la spiaggia, il malecón e tutte le sue storie, mentre in quel momento le luci dell’automobile sembravano l’unica cosa che potesse offrire un po’ di speranza all’umanità, agli altri animali e alle piante. Salimmo a bordo, Luis ed io, e cominciammo a divertirci con le solite cose di sempre: fare le stupide, quelle che non avevano alcuna esperienza, due donne moderne con alle spalle un semestre di odontologia all’Università Autonoma; le signore del quartiere, quelle che non avevano mai infranto né cuori né piatti, quelle che si erano proposte la missione di ribaltare, attraverso la sperimentazione del piacere della sessualità e del godimento dell’altro, le mascoline ed etero-bianchicce argomentazioni su cui era stata fondata e naturalizzata l’idea della nostra identità nazionale, quelle che nonostante le ripetute iniziative che stavano portando avanti, sapevano che sarebbero comunque passate inosservate in una città fortificata, e che tuttavia, non per questo, smettevano di dare scandalo. Il Viale Máximo Gómez era la scorciatoia verso i motel più economici e rancidi della Zona Colonial. Ridendo dissi che non ero stata io quella che aveva inventato il chapeo: che chiedessero all’Obelisco Hembra piuttosto, e già che c’erano che chiedessero anche dei cicloni che ogni anno venivano a ricordarci quanto fossimo minuscoli su un’isola che molti non sapevano condividere per un problema storico. Lo dissi ridendo forte, perché mi rendevo conto che stavo già cominciando a filosofeggiare, mentre tutto ciò che avremmo dovuto fare era metterci a pecorina. Arrivammo fino a Calle Isabel la Católica, poi i finocchi ci infilzarono con i loro cazzi succulenti e venosi al ritmo del flow della loro omofobia nazionale. Se ne andarono subito dopo lasciandoci piene di latte. “Bevetevelo”, ci dissero. Ma non lo facemmo. Sapevamo come ci saremmo sentite poi. Così ce ne andammo, camminando insieme, sentendoci le frocie più vuote del continente. Con Luis ci separammo dopo una discussione lungo la Avenida Simón Bolívar: ancora una volta incolpava me. Diceva che era colpa mia perché parlavo troppo, che diventavo pesante e questa cosa li spaventava, così i tipi finivano sempre per andarsene lasciandoci sole. Lui si aspettava che dopo aver scopato ci invitassero almeno a bere una birra in qualche locale. “Non sei obbligata a dire sempre quello che pensi”, mi disse scomparendo dietro a una haitiana che risaliva l’Avenida come se stesse nuotando, con un secchio color turchese in equilibrio sulla testa. Immaginai che non l’avrei più rivisto, ma era la sensazione con cui mi lasciava sempre, oltre al vuoto, quando ci incontravamo per tracciare mappe non etero-sessuali e anti-sesso-normative in una città che con le sue logiche etero-coloniali ci spogliava di tutto, ogni secondo. Ne approfittai per raggiungere Plaza de la Cultura e andare in biblioteca a cercare un libro di Aída. Volevo un suo libro per far compagnia alla mia solitudine, per riflettere su come andare avanti nei giorni, con le braccia spalancate come un silenzio ampio, vicino al mar dei Caraibi, intenta ad apparire come il centro dell’umanità, il centro del mondo, delle isole, e delle isole adiacenti. © 2022, Edizioni Arcoiris, Salerno