C’era una volta un bambino in Kosovo. Sarebbe un bell’inizio per una fiaba, se non si sentisse ancora il rumore delle pallottole, non si sentisse l’odore del sangue versato in un’operazione di pulizia etnica – genocidio, sarebbe meglio – che ha pochi precedenti nella Storia. Poi il bambino è diventato adulto, il sangue si è asciugato, i colpevoli del genocidio sono stati messi quasi tutti a tacere e anche il Kosovo si è rimesso in piedi. Il bambino è diventato un intellettuale, un attore, con moglie e figli, e un bel giorno ha scritto un libro. Su di sé e il suo Kosovo. E su tutto quello che è successo, a lui e al suo Paese sventrato dalla follia etnica. “Ballata dello scarafaggio”, il titolo è tratto da una canzone del gruppo rock Lindja, è l’ultimo libro di Shpëtim Selmani, pubblicato dall’editore Crocetti. Shpëtim Selmani, nato in Kosovo nel 1986, si è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Pristina, dove tuttora vive e lavora. È attore e scrittore. Fa parte di Qendra Multimedia, una delle compagnie teatrali più interessanti e attive del panorama balcanico, dove collabora come attore e drammaturgo. Ha recitato in spettacoli teatrali in Kosovo, Albania e in tutta Europa e ricevuto molti premi per le sue recitazioni. Scrive prosa e poesia, finora ha pubblicato “Shënimet e një Grindaveci”, la raccolta di poesie “Selected Poems 2010-2017. Poetry in Time of Blood and Despair” e “Libërthi i dashurisë”. Con quest’ultimo libro ha vinto il Premio per la Letteratura dell’Unione Europea nel 2020. È stato tradotto in francese, tedesco e bulgaro. «Il Genocidio di Srebrenica o la Tragedia di Bosnia è un crimine di guerra avvenuto nel luglio del 1995 in Bosnia Erzegovina, in cui morirono più di 8000 bosniaci musulmani, principalmente uomini e ragazzi tra i 12 e i 77 anni. Il Genocidio è stato compiuto nella regione di Srebrenica dall’esercito della Repubblica Serba. […] Un giorno, dato che studiava in una scuola serba, durante il viaggio di ritorno a casa, aveva parlato serbo. Alcuni bambini albanesi lo avevano fermato in mezzo alla strada e lo avevano colpito in testa, con un martello. In questo modo avevano compromesso un nervo della sua gamba. Era doloroso. Vederlo piangere, senza staccarci gli occhi di dosso». Ci ha messo proprio tutto Shpëtim Selmani nel suo libro: la guerra che ha segnato un popolo e la sua storia, l’amore che a volte tutto salva, la memoria, indispensabile per la ricostruzione dell’identità personale e di quella della società, spesso lacerata dalle necessità umane. E ancora la speranza, la sconfitta, la vittoria e soprattutto il male di vivere. Senza mai dimenticare. Fabio Poletti
Shpëtim Selmani Ballata dello scarafaggio traduzione di Fatjona Lamçe 2023 Crocetti Editore pagine 160 euro 17Per gentile concessione dell’autore Shpëtim Selmani e dell’editore Crocetti pubblichiamo un estratto dal libro Ballata dello scarafaggio.
Ero uno che, in un angolo del suo appartamento in affitto, a Pristina, parlava di possibili argomenti e ascoltava attentamente la risposta dello scrittore svizzero, che stava placando la curiosità della collega serba su cosa fosse la scritta Srebrenica, appesa al muro del suo studio. In Francia, appena nasce un poeta, lo mettono in uno studio. Dice, tra le altre cose, il nonno montenegrino. Spiego un po’ meglio, visto che Dupont vive nel cantone francese della Svizzera. Aveva lavorato a un film sui sopravvissuti di Srebrenica, e immediatamente la mia collega serba ha detto che noi serbi non pensiamo che loro siano vittime, che non è stata colpa dei serbi e che non era loro responsabilità, non so perché ma a sentire queste parole mi si è ristretto il petto e mi sono chiesto se sarei stato nazionalista a rispondere. O se per amore della letteratura e di altri temi esotici era meglio se me ne stavo zitto, se chiudevo questo buco di merda della mia bocca che rischiava di diventare nazionalista. Dobbiamo avere rispetto per la letteratura, la grande madre della conoscenza. Naturalmente. L’ansia di questi giorni ha messo in evidenza le mancanze di ciascuno di noi, per cui il mio impulso a reagire era naturalmente raddoppiato. Ho svelato il mio lato più misero, quello che non vorrei mai mettere in mostra. I serbi vogliono mettere tutto sullo stesso piano. La loro superiorità nell’ex Jugoslavia è ormai un’argomentazione consolidata. Ho sentito di dover dire qualcosa anche per quello sguardo gelido, spesso incomprensibile, europeo, quell’astensione moderata, con stile ed eleganza. Ma sono riuscito a trattenermi. Sento una spinta nazionale a intrattenere buoni rapporti con gli europei, allo stesso tempo sento che siamo sempre sotto esame, in prova, una specie di test davanti a una commissione specializzata nella libertà dei popoli. Mi sembrava di essere un esponente della delegazione kosovara ai colloqui con la Serbia, nel centro di Bruxelles. Un diplomatico arrogante. Un politico idiota. Un leader ridicolo. Non uno scrittore. Non un lettore di Paul Valéry. Non un erede scarso di Borges. Non un lettore dei libri di Friedrich Dürrenmatt o del controverso russo Vladimir Sorokin, a cui nel suo paese avevano bruciato i libri con l’accusa di pornografia letteraria. Che andasse al diavolo. Che andasse a fanculo tutta la letteratura. Di cosa stavamo parlando? Su che cosa dovevamo collaborare? Se lei la pensava così. Potevo essere un suo partner letterario e lei poteva essere una mia partner letteraria? Penso di no. Profondamente diversi di fronte alla verità. Con punti di vista agli estremi. Comunque, ho lasciato stare, non ho citato il super deficiente Handke e tutti quei deficienti che lo omaggiavano all’Accademia svedese. Spesso rinunciare è sintomo di mancanza di dignità. Questo era uno di quei casi. Non avrei voluto essere debole. Non avrei voluto allontanarmi dalla memoria e abbandonare il passato. Dopo che abbiamo superato tutta questa situazione di violazione della psicologia umana e mentre parlavamo dei temi e dei soggetti possibili, la giovane scrittrice serba, piena di ironia, ha fatto una proposta che mi ha fatto evaporare il cervello: che dite, possiamo scrivere di Srebrenica? Sempre sorridendo dolcemente. Naturalmente abbiamo deciso di scrivere di quest’anno. Che è fuori da ogni normalità. Dell’amore di quest’epoca, ostaggio degli schermi dei laptop e degli smartphone. Ma dentro di me echeggiava qualcos’altro. Un rifiuto estetico a stare dentro all’accordo. Forse non è stato corretto da parte mia, ma non ho resistito, non sono riuscito a domare il mio animale interiore quando, il giorno seguente, mentre davo a mio figlio la marmellata di fragole, un dinosauro dentro di me ha urlato: scrivi della tua Srebrenica! Della guerra. Della verità. Dell’uccisione della letteratura. Io credo a questo rettile gigante dentro di me. Che urla con i suoi occhi scuri e quella bocca piena di fuoco. Scrivo. Della guerra. Della Srebrenica di tutti. La letteratura è un gioco. Non te ne occupare. Tu sei solo. Una bandiera solitaria che sventola in una distesa senza fine. Un bambino infrarealista. Figlio del trauma post-jugoslavo. Un bambino disintegrato. Abbandonato nel terrore del rumore dei kalashnikov. Un sognatore tra i proiettili. Cresciuto tra soldati nichilisti. Che esercitavano il loro edonismo pisciando sulle teste mozzate degli uccelli. Per questo, di seguito, qualcosa sugli anni ’90, sulla guerra, su mio padre ostaggio dei soldati serbi, sulle preghiere di mio nonno nel ’99 vicino al confine con la Macedonia del Nord, sulla maestra macedone, che mi amava, sui tre che ho preso in lingua e letteratura albanese – ho pianto molto –, sul mio cane che scappava dai tuoni, sulle mine che circondavano casa mia, sul caos del dopoguerra, sulla mia ex ragazza serba, su Belgrado, i miei amici serbi – scrittori meravigliosi –, sul festival della letteratura Polip, sui giovani nazionalisti serbi – codardi –, sull’impotenza, sulla fuga dalle discussioni, sulla follia albanese, sulla neutralità genetica della Svizzera, sulla condizione umana. Titolo dell’opera originale: Balada e buburrecit © Shpëtim Selmani Crocetti Editore