Migrante economico, richiedente asilo, rifugiato, irregolare, clandestino. Sono parole che da decenni abbiamo imparato ad usare, anche se spesso facciamo confusione e le usiamo indifferentemente come sinonimi. Per molti sono l’incubo della modernità. Per tanti sono l’effetto a valanga della globalizzazione, e fa niente se in realtà non è ai tempi nostri ma tra la seconda metà dell’Ottocento e fino agli Anni Trenta del secolo scorso che si sono avuti i flussi maggiori di migrazioni. Per mettere ordine in tutto questo, per una nuova definizione su base antropologica di quello che sta accadendo, ci aiuta il libro di Barbara Sorgoni Antropologia delle migrazioni L’età dei rifugiati, pubblicato dall’editore Carocci. Barbara Sorgoni è professoressa associata di Antropologia culturale e di Antropologia delle Migrazioni presso l’Università degli Studi di Torino, Dipartimento di Culture, Politica e Società. Adottando una prospettiva antropologica e ricorrendo alle tante ricerche etnografiche già prodotte sul tema delle migrazioni forzate, nel Sud e nel Nord del mondo, il volume riflette criticamente sulla legittimità di mantenere separate tra loro le presunte tipologie di spostamento (regolari/illegali, volontarie/forzate, economiche/politiche), sugli effetti che queste distinzioni esercitano sulla nostra comprensione della realtà e, soprattutto, sull’impatto che hanno nella vita di chi migra e in quella di chi resta. A partire dagli ultimi trent’anni, quando l’approdo al tema si è diversificato tra chi ne ha un approccio umanitario, chi vede solo il presunto trauma collettivo provocato dalle “invasioni” e chi guarda ai confini, pensando a una ridefinizione delle relazioni tra gli stati. Fabio PolettiBarbara SorgoniAntropologia delle migrazioniL’età dei rifugiati2022 Caroccipagine 203 euro 22

Per gentile concessione dell’autrice Barbara Sorgoni e dell’editore Carocci pubblichiamo un estratto dal libro Antropologia delle migrazioni.Possiamo qui aggiungere quanto da tempo notato e riconosciuto da chi studia i centri di accoglienza in Europa e spesso anche da chi ci lavora: il fatto cioè che, nonostante ufficialmente chiamati “centri” e in genere di più piccole dimensioni dei campi profughi, per i migranti che vi transitano questi luoghi restano “campi”. Non perché non ne conoscano la denominazione ufficiale “qui”, ma proprio a indicare le molte continuità e somiglianze che si sperimentano nei due luoghi. Barbara Pinelli, ad esempio, usa il termine “campo” per riferirsi ai centri in Italia volendo identificare ciò che rende l’encampment – la “reclusione nel campo” di persone indesiderate – un sistema con caratteristiche comuni:L’isolamento spaziale del campo, il personale specialistico composto da amministratori, funzionari, medici, operatori che in esso lavorano, le leggi e i rituali burocratici, le pratiche mediche come screening, programmi igienici e sanitari, la raccolta di documenti e le numerose pratiche di controllo interne ed esterne ai campi caratterizzano il sistema campo (Pinelli, 2014, p. 72).Dal punto di vista della ricerca, però, occorre notare che mentre i campi nel Sud sono stati un terreno di studio etnografico quantomeno dagli anni Settanta, lo studio antropologico nei “centri di accoglienza” al Nord è invece decisamente più recente e successivo allo spostamento dei movimenti diasporici che a partire dagli anni Novanta iniziano a interessare anche il Nord. Emerso in Europa tra le due guerre mondiali per gestire profughi e sfollati nel continente, dagli anni Cinquanta il baricentro dell’asilo si sposta via via verso il Sud come problema specifico dei paesi poveri, per riemergere infine negli anni Novanta nel cuore dell’Europa in relazione alla guerra nella ex Iugoslavia e alla crisi nel Kosovo, in un contesto generale segnato da profonde incertezze legate alla globalizzazione e alla crisi del welfare.Si verifica in quel periodo, a mio parere, un doppio e in apparenza contraddittorio movimento che informa in modo nuovo le politiche migratorie, le procedure di richiesta di asilo e la percezione e rappresentazione delle migrazioni nei paesi ricchi. Da un lato questi paesi passano, in un tempo relativamente breve, da esperienze con pochi soggetti selezionati costretti all’esilio all’incontro con masse di perso- ne che chiedono asilo, e dunque da un fenomeno sporadico e singolare a ciò che viene sempre più definito l’emblema della modernità. Nonostante in entrambi i casi si tratti di persone che chiedono protezione in un paese altro, i due fenomeni sono percepiti e rappresentati in modi diversi. Il concetto di esilio fa riferimento a soggetti indicati come esuli o apolidi a cui si riconoscono volontarietà, libertà e potere rispetto a scelte politiche considerate coraggiose: rimanda cioè a una condizione estetizzabile che si presta a essere idealizzata, divenendo fonte di ispirazione letteraria (Said, 2008). L’asilo invece parla di masse anonime in pericolo costrette a spostarsi più che desiderose di farlo, da gestire attraverso protocolli umanitari standardizzati che ne richiedono un efficiente confinamento. Libertà, creatività e potere sono qui sostituite da controllo, pericolo e sofferenza, e le immagini proposte dai media sono quelle di masse di individui dalla corporeità anonima, che premendo sugli schermi televisivi sembrano incombere minacciosamente sui “nostri” confini (Feldman, 1994; Pinelli, Ciabarri, 2015). Dall’altro lato, però, lo spostamento delle diaspore verso il Nord del mondo si accompagna a politiche di gestione della mobilità che passano dalla dimensione collettiva dei campi, dove confluiscono intere comunità, a pratiche di “smistamento” delle persone con la loro dispersione, individuale o per piccoli gruppi, sui vari territori nazionali di approdo. E si accompagna a procedure di riconoscimento della protezione internazionale che, dalla protezione collettiva di interi gruppi in base alla provenienza da un determinato contesto, passano piuttosto a esaminare traiettorie, storie e documenti di ogni singola persona cui la protezione è, eventualmente, riconosciuta su base individuale. Si accompagna, infine, a una espansione del ricorso alla retorica dei diritti universali e alla parallela proliferazione di etichette giuridiche, che finiscono per erodere e assottigliare quegli stessi diritti (Zetter, 2007).Come si è visto nel capitolo 1, la separazione netta tra migrazioni economiche e migrazioni politiche nel periodo tra le due guerre mondiali non identifica solo due ipotetiche categorie di migranti, ma anche due modalità distinte di gestione dei fenomeni. Quando a partire dagli anni Ottanta il primo tipo di migrazione viene di fatto impedito attraverso politiche dapprima restrittive e poi di virtuale o effettiva chiusura, la possibilità di migrare in modo regolare (o meglio, regolarizzabile) resta solo a chi può dimostrare di essere stata costretta a fuggire per motivi di persecuzione e violenza politica. Questa possibilità prevede l’ingresso in un percorso dalla durata variabile, misurabile in anni, in cui – a differenza di quanto previsto per le migrazioni economiche – la persona è idealmente seguita, assistita, gestita e controllata da vari attori istituzionali o collegati alle istituzioni preposte all’accoglienza. In altre parole, nel momento in cui approda in un paese del Nord qualsiasi migrante si troverà di fronte alla stessa scelta: avanzare richiesta di asilo per risiedere in modo legale nel paese (se la domanda avrà esito positivo), oppure entrare automaticamente nell’illegalità data dall’avere attraversato in modo definito irregolare confini oggi chiusi ad alcuni. E dal momento in cui decide di fare richiesta di protezione internazionale in un qualsiasi paese occidentale, diviene un “richiedente asilo” idealmente immesso in un percorso standardizzato, fatto di tappe progressive scandite da periodici e ripetuti incontri con differenti attori istituzionali che hanno, o appaiono avere, il potere di definire in modo sostanziale le condizioni di vita presenti e future.© copyright 2022 by Carocci editore S.p.A., Roma