Sono passati poco più di trent’anni e quello è stato solo l’inizio. Le immagini dei telegiornali dell’8 agosto 1991 con le banchine del porto di Bari e di Brindisi affollate di gente all’inverosimile ce le ricordiamo tutti. Erano i primi migranti di massa provenienti dall’Albania ad approdare in Italia. Erano migranti, ma soprattutto persone. La genesi di quel viaggio e tutto quello che è successo dopo lo racconta la giornalista Ilaria Lia in questo approfondito libro Albania Italia andata e ritorno pubblicato da Ed Edizioni. Da quel giorno il nostro Paese non sarebbe stato più lo stesso. Messo a confrontarsi con un fenomeno, quello delle migrazioni di massa, che si sarebbe rivelato inarrestabile e pronto a seguire altre rotte. Non più solo l’Adriatico affollato prima di grandi e piccole navi poi di gommoni ma pure il Mediterraneo, il mare di Sicilia, Trieste approdo dei migranti arrivati attraverso la Rotta Balcanica. Ilaria Lia in questo libro, che è cronaca ma pure analisi appassionata, racconta lo sbigottimento degli italiani di fronte all’«invasione», termine che diventerà abusato in bocca a politici senza scrupoli e di fondo senza cuore. Ma pure la speranza di decine di migliaia di albanesi che sfidano quel breve tratto di mare per arrivare in Italia, il Paese che conoscevano fin troppo bene per averlo visto ogni giorno in televisione. Nel libro c’è il racconto di quanto la politica fosse impreparata in quegli anni. Per non parlare delle strutture di assistenza, davanti a quella marea montante bisognosa di tutto, cibi, vestiti, un alloggio, un lavoro, dicumenti, la certezza di una vita nuova e alla fine calore umano. Ilaria Lia ci racconta delle relazioni tra Italia e Albania prima del grande sbarco e pure dopo, quando le autorità di Tirana invocano il rimpatrio e buona parte della politica di casa nostra si prodiga alacremente per cacciare gli stranieri, appunto «gli invasori». Ma c’è pure il racconto di chi si è fatto da subito in quattro per offrire assistenza e dunque dignità umana, dalla Chiesa alle strutture di volontariato. Forse non lo sapevamo ancora, qualcuno lo aveva intuito appena, ma da quel giorno di agosto l’Italia e i migranti che ancora bussano alla sua porta, avrebbero posto delle domande ancora in attesa di risposte. Fabio PolettiIlaria LiaAlbania Italia andata e ritornoLa storia che sfocia nei grandi esodi, il legame solidale promosso dopo gli sbarchi2021 Ed Insiemepagine 440 euro 20

Per gentile concessione dell’autrice Ilaria Lia e dell’editore Ed Insieme pubblichiamo un estratto dal libro Albania Italia andata e ritorno.La VloraLe discussioni e le polemiche passano in secondo piano la mattina dell’8 agosto, giorno in cui tutta Italia si rende veramente conto di quanto accade in Albania e di cosa significhi l’immigrazione. Le immagini del molo 12 del porto di Bari traboccante di uomini disperati ma contenti di essere arrivati sull’altra sponda dell’Adriatico, entrano nell’immaginario collettivo.La Vlora viene presa d’assalto il mattino del 7 agosto nel porto di Durazzo. Era di ritorno da Cuba, tra i pochi paesi con cui l’Albania intrattiene rapporti commerciali. I profughi arrivati a migliaia sul molo di Durazzo, costringono il capitano Halim Maliqi a far riparare il motore che egli dice in avaria, e a salpare nuovamente facendo rotta verso l’Italia. Il regista Daniele Vicari, nel suo documentario La nave dolce, attribuisce questa denominazione alla Vlora, per via del carico trasportato, oltre 3mila chilogrammi di zucchero di canna, che non fa a tempo a scaricare.Il copione è sempre lo stesso: si diffonde la voce di una grande nave in arrivo nel porto, pronta a trasportare gli albanesi in Italia o in Spagna, per via di un fantomatico accordo con l’Albania, e sul molo accorrono centinaia di persone pronte a salpare. Anche stavolta le autorità non riescono a impedire alcunché, anzi alcuni poliziotti si tolgono la divisa e si confondono tra la gente.I messaggi lanciati da Radio Tirana invitano la folla a tornare a casa, ma nessuno riesce a fermare quel fiume di persone: alle 16 la Vlora lascia il porto di Durazzo con circa 18mila persone a bordo.Durante la navigazione verso l’Italia, i due governi si mettono in contatto: dall’Albania si chiede di bloccare l’esodo e di rimpatriare i migranti; il Governo italiano, concorde sul rimpatrio, decide inoltre di procedere al controllo serrato delle coste, e contestualmente si dice pronto all’invio di nuovi aiuti alimentari e al coinvolgimento della Comunità Europea per risolvere le precarietà della situazione albanese.La mattina dell’8 agosto, la sagoma della nave si staglia all’orizzonte del porto di Brindisi, la Capitaneria di porto invia messaggi intimidatori chiedendo che prosegua il viaggio verso Bari, scortata da una motovedetta e un elicottero italiani. Verso le 10 nel porto di Bari ci sono già le autorità locali, i giornalisti e i curiosi. Prima dell’attracco molti albanesi si buttano in mare e raggiungono il molo nuotando. In men che non si dica, la banchina si riempie di uomini e il fotografo Luca Turi, con i suoi scatti, riesce a rendere immortali quegli istanti.Nessuno aveva mai visto una cosa del genere. Ad accogliere i profughi non c’era nulla, e non c’era nulla da offrire loro, né acqua né cibo. I soccorsi arrivano poco dopo, ma non si riesce a dare ristoro a tutti. Intanto all’orizzonte si vedono altri mezzi marittimi, salpati nella notte: il mercantile Skanderbeg con 1.000 persone a bordo, la chiatta Kalmi con altre 300, mentre 60 profughi, giunti con il peschereccio l’Eremita, approdano direttamente sulla spiaggia di San Cataldo. Altre imbarcazioni compaiono ancora, di ora in ora, all’orizzonte, con numeri più o meno consistenti di migranti a bordo. Schierate dal Ministero della Difesa, solcano il mare le navi della Marina Militare: 2 fregate portaelicotteri, la Euro e l’Espero, i pattugliatori Palmaria e Levanzo, e altre motovedette. Il loro compito è di scortare in patria le imbarcazioni albanesi nel viaggio di ritorno. I comandanti disobbedienti sarebbero stati accusati di «importazione clandestina di immigrati», e le loro imbarcazioni sarebbero state requisite.Dall’arrivo dei primi profughi nel mese di marzo, in tanti si aspettavano un esodo del genere, ma il governo italiano si fa trovare impreparato e la risposta agli sbarchi è del tutto inadeguata. La stampa rispolvera la formula dell’allarmismo e presenta i nuovi profughi come pericolosi, violenti, portatori di malattie, e ancora affamati, straccioni, sporchi, cattivi. Il Governo dà mandato all’Esercito di trasferire i profughi nel vicino Stadio della vittoria, decisione paragonata, per il suo carattere di disumanità, al concentramento dei dissidenti cileni nello Stadio Nazionale di uñoa ad opera del golpista Pinochet. Quasi tutti sarebbero poi stati rimpatriati con l’inganno.Il sindaco di Bari, Enrico Dalfino, nell’accogliere la moltitudine di profughi si dimostra, invece, sensibile e umano, in risposta alle ciniche ragioni di Stato. Anche don Tonino Bello, vescovo di Molfetta e presidente della sezione Italiana di Pax Christi, si reca al porto di Bari in compagnia del suo collaboratore Renato Brucoli, responsabile del Settore emergenze della Caritas diocesana, per raccomandare alle autorità civili un trattamento più umano dei profughi, ma invano. Le polemiche riempiono anzi i giorni a seguire: il Presidente del Consiglio Andreotti non farà mai tappa a Bari, preferendo controllare l’emergenza via telefono; il ministro dell’Interno Vincenzo Scotti prenderà in giro mons. Bello, esponendolo al ludibrio generale; le opposizioni contesteranno il ministro Scotti per inadeguatezza nel ruolo; Umberto Bossi alzerà la voce contro Scotti e la Boniver chiedendone le dimissioni, per l’insicurezza pubblica causata dagli immigrati comunque sbarcati, il tutto colorito con il suo caratteristico linguaggio, non corretto e irrispettoso verso le istituzioni, diventato poi un suo punto distintivo.Nello stadio, com’era forse inevitabile a causa del disagio procurato a tanti profughi lasciati sotto il sole cocente di agosto senza acqua né servizi igienici, si registrano risse ed episodi violenti, tentativi di fuga e alcuni scontri conla polizia: tutto riportato dai giornali che enfatizzano l’accaduto secondo lo stereotipo acquisito degli albanesi prepotenti e delinquenti. Il giornalista Enzo Biagi è fra i pochi a dissociarsi dal coro. Così scrive sul Corriere della Sera: «È svanito il sogno degli albanesi, ma anche quello degli italiani. La quinta potenza industriale del mondo non è in grado, in tre giorni, di distribuire diecimila tazze di caffelatte… Quei sacchetti di plastica gonfi d’acqua buttati agli assetati, quei panini lanciati dai soldati sulla folla tumultuante, ricordavano lo zoo… Siamo stati invasi da una turba di disgraziati in mutande».I rimpatri iniziano subito, secondo quanto dichiarato dal ministro Scotti. Il 14 agosto, già 17.466 albanesi sono in patria; nei giorni successivi lasceranno l’Italia altri 2.267 profughi. Al termine dell’operazione rimpatrio, il Governo, e nello specifico i ministri Scotti e Boniver, rivendicheranno come ottimale la gestione dell’emergenza, mentre Umberto Bossi, che con le sue uscite tende ad acquisire maggiore spazio sulla scena politica, si attribuisce il merito della decisione di rimpatriare.© 2021 Ed Insieme