È finita che chi dall’Italia si è collegato alle 2 di notte si è ritrovato davanti a una mesta cerimonia in cui – come per gli Emmy – chi ha vinto ha ringraziato dal tinello di casa. Ed è finita che, come era stato ampiamente previsto, il compianto Chadwick Boseman ha vinto un Golden Globe postumo per Ma Rayney’s Black Bottom, Laura Pausini ha vinto per la miglior canzone originale e la statuetta per miglior film è andata a Nomadland di Chloé Zhao.

Eppure, quelli che si sono tenuti stanotte non saranno ricordati solo come i noiosissimi Golden Globe senza red carpet, né entreranno nella storia perché condotti un po’ da NY e un po’ da LA da Tina Fey e Amy Poehler, ma come quelli del globo a pezzi

Inizia tutto con un’inchiesta del Los Angeles Times, pubblicata in due parti la scorsa settimana. Stacy Perman e Josh Rottenberg hanno ricostruito l’elenco degli 87 membri attivi dell’Hollywood Foreign Press Association, rivelando che nessuno di loro è nero, così come nessun afrodiscendente ne ha fatto parte negli ultimi vent’anni.

Not everything that is faced can be changed, but nothing can be changed until it is faced”: non tutto quel che si affronta può essere cambiato, non tutto si può cambiare se prima non lo si affronta, scriveva James Baldwin e a otto mesi dall’ondata di Black Lives Matter è stato difficile per attori, registi e produttori, afroamericani e non, fare i conti con una tale mancanza di rappresentanza tra chi, prima di decidere chi vince, nomina chi può aspirare al premio. E la polemica si è trasferita sui social, capeggiata dal movimento femminista Time’s Up, che venerdì scorso ha fatto un post in cui il golden globe è raffigurato a pezzi su uno sfondo nero – nero come il famoso quadratino che il 2 giugno scorso qualcuno si era preoccupato di postare anche sull’account Instagram dei Golden Globes – con la specifica che nell’HFPA “Not a single black member out of 87”. Nemmeno uno su 87.

Lungo l’elenco delle star del piccolo e del grande schermo che hanno deciso di manifestare il proprio dissenso dai metodi della Hollywood Foreign Press Association, e comprende i registi Ava DuVernay e J.J. Abrams, i produttori Shonda Rhimes (la cui serie Netflix dei record – Bridgerton – non ha ricevuto neanche una nomination) e Damon Lindelof e le attrici Ellen Pompeo, Olivia Wilde e Kerry Washington. Tra coloro che si sono esposti anche l’attore Sterling K. Brown – il Randall della super inclusiva This is us, nel 2018 primo afroamericano best actor– la cui presenza nella Rainbow Room come presentatore farebbe parte del “cosmetic fix” con cui i padrini dei Golden Globes pensano di coprire l’assenza di afrodiscendenti tra i decisori di chi su quel palco viene nominato per ritirarlo, il premio. Possibilmente non da morto.