Il campionato, per il St. Ambroeus FC, prima squadra di rifugiati e richiedenti asilo a iscriversi ad un campionato FIGC, a Milano, inizierà questa domenica a Pero alle 17.30 per giocare contro il Cimiano Calcio. Dirigente della squadra, oltre che vicepresidente della onlus Altropallone, il milanese Gian Marco Duina ci racconta perché in queste ore le ricadute del decreto sicurezza si faranno sentire anche sui campi sportivi, complici le famose norme tuttora al centro del dibattito politico.

Che c’entra il decreto sicurezza con lo sport?

«In seguito all’ormai famoso decreto, i titolari di un permesso di soggiorno per richiesta asilo non possono più iscriversi all’anagrafe, che però oggi è un presupposto fondamentale per l’accesso alle cure mediche di base, lo studio, la formazione professionale. E, non meno importante, permette anche l’iscrizione ad un campionato sportivo. In questo modo si interrompe un intero percorso di inclusione, come quello che portiamo avanti con St. Ambroeus FC».

Cos’è esattamente il St. Ambroeus e dove giocate?

«Il St. Ambroeus nasce nell’estate del 2018 dalla fusione di altre squadre di migranti di Milano. Non siamo una scuola calcio, ma diamo la possibilità ai nostri ragazzi di vivere un’esperienza seria, affrontando il campionato Figc. Oltre ad essere la prima squadra del genere a giocare nella terza categoria Figc, siamo anche la prima ad avere un presidente africano, Kalilou Koteh, che viene dal Ghana».

Quanti tesserati avete?

«I numeri sono in divenire, ma ad ogni allenamento contiamo circa 25 persone. Essendo una squadra prevalentemente di migranti, noi ricordiamo loro di dare sempre la precedenza al lavoro, anche a costo di perdere gli allenamenti. In campo la provenienza è varia, contiamo 12 nazionalità tra italiani, africani (prevalentemente centro Africa), poi abbiamo ragazzi dall’Iraq e dal Perù. Gli allenatori sono due: Cesar, dal Camerun, lo storico preparatore dei Black Panther, che è una delle squadre che ha dato vita al St. Ambroeus, e Vincenzo, da Catania».

Tra i vostri tesserati, quanti sono rimasti bloccati a causa del decreto sicurezza?

«Al momento nessuno, perché la norma non è retroattiva quindi i tesserati che avevamo sono già a posto. Il problema si pone sui nuovi tesserati asilanti che arriveranno. Anche se abbiamo già notato che per chi abita nei centri di accoglienza si può trovare una soluzione, se il centro certifica che la persona risiede nel centro. Ma quel che chiediamo è che si lavori al più presto sulla norma, per mettere al centro la persona, non il numero. Non è possibile che, in questo momento, l’unica strada sia affidarsi alla discrezionalità di un educatore e del centro di accoglienza. Senza parlare dell’iter che segue il tesseramento…»

Il decreto sicurezza può impedire il tesseramento di un atleta?

«No, il tesseramento di un giocatore extracomunitario è una faccenda complessa ma tutta interna alle norme Figc. Che, intendiamoci, hanno senso: per evitare che si crei una tratta dei giocatori, esiste una norma che prevede che, per il tesseramento di atleti extracomunitari, sia necessario passare direttamente da Roma, fornendo un’autocertificazione sul fatto che il giocatore in questione non abbia mai militato in squadre di altri Paesi extracomunitari. In caso contrario, si deve chiedere il nulla osta del Paese d’origine».

Quali complicazioni crea nello specifico, questa richiesta?

Il problema si crea ad esempio per un giocatore che ha lo status di rifugiato e che proviene da uno stato in guerra: spiegatemi come potrebbe ottenere un nulla osta dallo Yemen, dalla Siria, o dall’Afghanistan! In alcuni casi, questa richiesta lo metterebbe in serio rischio: avvisare la federazione dell’Eritrea, nel quadro di una dittatura che persegue una politica antimigratoria, che una tal persona è fuggita e ha trovato rifugio in Italia… Spero che la Figc riconsideri al più presto questo aspetto per gli asilanti e i rifugiati.

Tirare calci ad un pallone non è la priorità di chi scappa da una guerra, le si potrebbe rispondere…

«Al contrario, lo sport è fondamentale per chiunque di noi, ed è importantissimo per dare uno spazio dove chi ha subito dei traumi e chi sta affrontando un percorso di inclusione possa esprimersi, emanciparsi. So bene che il mancato tesseramento non preclude la possibilità di allenarsi, ma gareggiare è esprimersi. Immaginate ragazzi che si allenano tutta la settimana e poi devono stare in tribuna, in uno spazio che ricorda loro che in campo non c’è spazio per loro. Immaginate le ricadute psicologiche. Per noi è inaccettabile. Per un ragazzo migrante che arriva in Italia, il campo da calcio, il campo di atletica o la piscina dove gareggiare sono una tela bianca, dove possono dimostrare chi sono. Ovvero che sono talenti di cui l’Italia potrebbe farsi vanto, invece di lasciarli inespressi».

In che modo?

Diamo spazio ai talenti inespressi dei nuovi italiani: in campo noi vediamo veri fenomeni sportivi, ma anche straordinarie sensibilità artistiche e umane. La federazione calcio italiano ha bisogno di nuovi talenti: spero non resti a lungo chiusa, ma si apra a giovani nuovi italiani che non aspettano altro che esprimersi e portare risultati straordinari. Al contrario, ghettizzare il talento, a cosa ci porta?

Me lo dica lei.

«Ci porta ai pacchi postali. Al considerare le persone come numeri. Quando hanno chiuso i centri d’accoglienza, non hanno minimamente tenuto in conto i percorsi che stavano avvenendo sul territorio. Quando hanno chiuso il centro milanese di via Corelli hanno mandato i ragazzi a Varese e Brescia. Barrì, il nostro terzino sinistro, è finito ad Agrate e non può più allenarsi con noi. Anche questa è inclusione. Mi auguro che il nuovo governo agisca in fretta, per dimostrare che dietro le norme ci sono delle persone, non dei numeri e neppure dei pacchi postali»