Coronavirus e quarantena sono due parole che fino a pochi mesi fa non facevano parte del nostro vocabolario attivo. Sembravano termini televisivi, fatti lontani dalle nostre vite. Oggi tutto è cambiato: la tempesta non era prevista, ma ci troviamo in mezzo. E tocca a tutti remare, nella stessa direzione. Sono i cambiamenti della vita quotidiana, che spingono alla riflessione che affondava nella solita routine di ogni giorno. Quella sui nostri modi di vivere. Sui possibili cambiamenti nella nostra cultura.   

«La cultura è come facciamo le cose ora e qui» sono le parole con le quali la società americana di consulenza McKinsey spiega questo concetto complesso e multidimensionale. Già, come facciamo le cose. Come analizziamo, interpretiamo e affrontiamo ciò che succede a noi e al mondo intorno a noi. Come scegliamo le nostre reazioni, se ci rendiamo conto o no delle possibilità di scegliere. Diverse possibilità.

Gli strumenti che aiutano a organizzare la nostra vita sono molti. Che cosa insegna la nostra cultura sulle nostre capacità di navigare nello sconosciuto? Quali mezzi fornisce per poter vincere? Non amo molto l’idea del proiettile d’argento, preferisco pensare a una valigia con degli attrezzi molto variegati, ognuno con il suo perché. 

Ogni generazione crede che la sua valigia sia sufficientemente piena, ma ogni generazione successiva si trova di fronte a sfide sempre nuove e scopre che c’è spazio per un nuovo attrezzo, adatto al momento.

In questi giorni bui vediamo con chiarezza e forse meglio di prima – adesso che siamo liberi da alcune distrazioni quotidiane – che oltre alla tecnologia, alla qualità delle infrastrutture e dei servizi che ci vengono offerti dalla società contemporanea, c’è qualcosa che rimane in primo piano: la necessità di un essere umano di sentirne vicino a sé un altro – un medico, un barista, un musicista.  Di condividere le storie che ci uniscono. Una volta soddisfatti i bisogni primari (avere un tetto sopra la testa e del cibo) però, scopriamo che la condivisione delle storie più profonde non è immediata.

Siamo portatori di differenze generazionali, professionali, nazionali. I nostri modi di fare a volte possono portare al conflitto. E la comprensione reciproca non sempre avviene senza uno sforzo cosciente.

Questa capacità di capire l’altro si chiama Intelligenza Culturale (CQ). È una competenza trasversale che non serve solo ai dirigenti delle multinazionali o a chi lavora con gli stranieri e con gli immigrati. Serve a tutti coloro ai quali interessa sentire altre “voci” oltre alla propria voce interiore. Qualche tempo fa, prima della quarantena, mentre abbozzavo un articolo sull’intelligenza culturale per uso professionale, ho citato il gioco della barca, un esercizio che propone una situazione per la quale i giocatori si devono immaginare in una situazione stressante. Un gioco utile, quasi crudele, che è stato pensato per spingerci fuori dai soliti schemi mentali. Non immaginavo che ben presto la realtà ci avrebbe messo di fronte ad sfida molto più difficile. Con quale coefficiente di intelligenza culturale affrontiamo le nostre situazioni quotidiane? Quanto inclusiva è la nostra realtà e quanto lo sono i nostri modi di interagire con chi è diverso da noi per modo di pensare, per accento o per mestiere? Ci rendiamo conto che questa inclusione può salvare qualche vita, questa volta letteralmente?

Dopo tutto, le tempeste non durano per sempre. La ripresa sarà dura, ma sono fiduciosa che la nave si potrà riparare. Con gli attrezzi giusti. E quanto avverrà, dovremmo cercare di rientrare in ufficio e affrontare la vita di condominio con la mente più aperta, sapendo di avere l’intelligenza culturale in valigia. Per farlo, però, cominciamo a esercitarla subito.

“Prepara la slitta d’estate e la carrozza d’inverno” dice un proverbio russo. Buon viaggio.

* Olga Plyaskina, formatrice in intelligenza culturale

Foto: Dollar Gill / Unsplash