Jonathan Robijn
Congo blues
2020 Marsilio
pagine 172 euro 16
A ricordare le sue radici c’è solo il colore della pelle. Della sua vita di prima Morgan sa quasi nulla. Sa di essere nato in Congo, un Paese che per lui rappresenta solo un puntino sulla carta geografica ma gli evoca zero ricordi. Sa di essere stato messo su un aereo con destinazione Bruxelles, dove una famiglia lo adotta ricoprendolo di amorevoli attenzioni. A 17 anni scappa a Parigi, dove incontra il jazz, un tributo ai suoi genitori adottivi che lo hanno avvicinato alla musica. Quando torna a Bruxelles diventa un protagonista anche se marginale della scena jazz della capitale belga.
Sarà un incontro casuale con una donna misteriosa la mattina di Capodanno del 1988 a stravolgergli la vita e a indurlo a seguire un fil rouge che lo porterà a riscoprire le sue origini, intrecciando i mille nodi della sua vita con il passato da colonia dell’ex Congo Belga. Scritto dal giornalista fiammingo Jonathan Robijn, Congo blues ha le sue radici nell’esperienza africana con Médecins sans frontières dell’autore. Se il romanzo avvince come un giallo, andando avanti con la lettura se ne scopre lo spessore. Congo blues alla fine è un romanzo sulla memoria e sulle radici scritto a tempo di jazz. Fabio Poletti
Per gentile concessione dell’autore Jonathan Robijn e dell’editore Marsilio pubblichiamo un estratto del libro Congo blues.
Morgan tornava verso casa dal panificio De graaf il primo dell’anno intorno alle sette di mattina, quando la trovò rannicchiata contro il muro coperto di rampicanti dell’officina di biciclette smolders. Aveva le ginocchia raccolte tra le braccia intrecciate su cui era appoggiata la testa. Portava un vestito corto, calze nere, scarpe con i tacchi alti e il cinturino alla caviglia, un cappotto pesante e un berretto nero su cui era ricamata una parola che finiva in “-onix”. nonostante il freddo, era senza guanti. Angela. A vederla lì tra i rampicanti che lo aspettava, la riconobbe all’istante. Le sue spalle, le sue mani, nonostante fossero passati anni non era affatto cambiata.
Sulla strada parallela alla ferrovia a quell’ora non c’era anima viva, metà della città stava ancora festeggiando l’anno nuovo, l’altra metà era già andata a dormire. In lontananza si sentivano le manovre dei treni nella stazione e il rumore di un generatore che pompava l’acqua. Nell’aria c’era la solita puzza di lignite, mescolata all’odore dei divertimenti notturni.
Morgan proseguì senza girarsi a guardarla, sorpreso, immaginando che, come al solito, avesse bevuto troppo a Capodanno. Dopo cinquanta metri però si fermò e tornò indietro. Quante volte si leggeva sul giornale di alcolisti rimasti vittime del freddo su una panchina nel parco? Ogni anno morivano assiderati almeno un paio di ubriachi. Si chinò e le sfiorò una spalla. Quelle sue spalle esili, spioventi, che davano un’impressione sconsolata, nonostante fossero nascoste sotto il grosso cappotto nero. Con una mano si teneva un ginocchio, l’altra era chiusa, quasi gli nascondesse qualcosa. Voleva fargli una sorpresa? Celava il ditale che a volte di notte gli passava lungo la spina dorsale? O il diapason che faceva vibrare in luoghi in cui lui solo poteva posare l’orecchio in ascolto? Non reagiva. Da sotto il berretto sbucavano alcune ciocche dei capelli biondo paglia tra i quali tante volte aveva passato le dita.
«Ehi!» Il suo respiro era tranquillo.
Cominciò a nevicare. «Ehi» ripeté con la voce pacata di un uomo che non si scompone davanti a niente e nessuno, «devo chiamare un’ambulanza?».
Nessuna reazione. Morgan abitava un paio di case più avanti, a cento metri di distanza. Al piano terra di un palazzo signorile aveva in affitto un monolocale talmente piccolo che di rado vi riceveva qualche ospite. Il solo pensiero di “ricevere ospiti” lo faceva morire dal ridere. Aveva comprato tutti i suoi mobili dai robivecchi e ai mercatini dell’usato: un tavolino da salotto basso di plastica, una poltrona in finta pelle gialla, un letto dalla base multicolore, come a volte si vedono nei film cult, un tavolo con la vernice scrostata, quattro sedie tutte diverse e un armadio. E vicino al pianoforte uno scaffale pieno di lp che coprivano l’intera storia della musica degli ultimi vent’anni. Era un quartiere in cui le case avevano ancora prezzi abbordabili, senza dubbio per il rumore della vicina ferrovia, quel caratteristico deng, deng, deng delle locomotive in movimento. Smolders diceva sempre che il quartiere dopo la chiusura della fabbrica era diventato molto più tranquillo, che passavano meno treni, che il problema principale ora erano i gatti randagi e i drogati che si contendevano lo spazio.
Tutti conoscevano i vicini per nome, tranne Morgan: lui non aveva interesse per il vicinato, conosceva solo Vermeersch, il padrone di casa, che di norma lasciava tranquilli i suoi inquilini purché pagassero l’affitto puntuali e in casa non avessero luogo attività troppo illegali. Come quel ragazzo che aveva messo in piedi un autentico bordello, quello l’aveva sbattuto fuori con poche parole scelte con cura. Per il signor Vermeersch era tutto permesso, non faceva domande, in particolare quelle imbarazzanti, purché si restasse nei limiti della decenza. Aveva trent’anni, più o meno, forse neanche, magari ventotto, ed era sempre vestito in modo sportivo, non rasato, con un taglio di capelli che sarebbe andato bene anche per un principe. non arrivava mai senza avvisare prima, salutava educatamente quando incontrava Morgan sulle scale, di rado si lamentava della quantità spaventosa di spazzatura che si accumulava dopo l’estate nel cortile dietro l’edificio o della vita notturna alquanto rumorosa di diversi inquilini. Alcuni di loro occupavano la stessa stanza per anni, altri si fermavano solo qualche settimana.
«Ehi» disse un po’ più forte ora Morgan, «sta nevicando. Non puoi restare qui.»
© 2017 by Jonathan Robijn and Uitgeverij Cossee Published by arrangement with The Italian Literary Agency
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