Chiky Realeza lo avevamo già incontrato nella colonna sonora del documentario Punta Sacra di Francesca Mazzoleni, in corsa ai David di Donatello 2021. Da sudamerisardo, come si definisce lui in quanto figlio di madre sarda e di padre cileno, il rapper trentaduenne punta a essere il portavoce dei chicanos italiani. Con la rabbia che ha in corpo, le cose che dice somigliano più a un urlo. Perché c’è tanto da denunciare in Italia secondo Realeza, che le ingiustizie sociali le ha vissute sulla sua pelle e anche dentro al carcere. E quell’urlo ci ricorda che le parole hanno un peso, come recita la regola delle Dieci P del suo ultimo pezzo in uscita in questi giorni, Prima pensa poi parla che parole poco pensate portano pena.

Sudamerisardo

Anche se in famiglia non gli hanno mai parlato né spagnolo né sardo, è molto orgoglioso delle sue origini. Lo testimoniano canzoni come Sudamerisardo o Moai e Nuraghes. «Dopo aver vissuto una ventina d’anni di dittatura, mio padre venne a lavorare in Italia grazie a mio zio, che lavorava all’ambasciata cilena. Mia madre invece è arrivata a Ostia con la famiglia perché suo padre aveva preso in gestione un ristorante. Praticamente due immigrati che si incontrano e danno vita a un sudamerisardo». A ogni ricordo che snocciola emerge l’ammirazione per suo padre, un uomo appassionato, «un rivoluzionario dentro» che ascoltava la musica del popolo. Nel suo Paese di origine Chiky Realeza ci è andato spesso e per periodi lunghi, anche se ora manca da diversi anni. «Voglio tornare in Cile da vincente, da persona affermata in quello che fa. Voglio dimostrare di essere uno che non vive di espedienti».

Le seconde generazioni secondo Chiky Realeza

Dopo neanche una manciata minuti di conversazione, è evidente che Realeza è un combattente instancabile ma che non cede alle illusioni. Per lui il bilancio dell’ultimo anno delle nuove generazioni con origini straniere è decisamente negativo, sia nella vita di tutti i giorni sia nella musica.

Quello che ora va per la maggiore sono le seconde generazioni che esaltano gang, alcol, droghe, violenza e soldi facili. Questa regressione secondo me è manipolata dal sistema perché fa comodo mettere i ragazzi gli uni contro gli altri

Dice di voler essere il portavoce dei sudamericani in Italia ma senza la retorica del “siamo tutti uguali”. Perché le differenze sono importanti e lui ci tiene a rappresentare quelle che ci identificano più del colore della pelle o dell’uso di un’altra lingua.

Voglio che un ragazzo di seconda generazione non si senta straniero e che sia fiero delle sue origini. Anche se mi dispiace sembrare negativo, sappiamo perfettamente che questo cambiamento è un’utopia

Le ingiustizie e la musica

Per questo Realeza ha deciso di raccontare le ingiustizie sociali attraverso la musica, +, parlando delle verità che sono sotto gli occhi di tutti ma non vogliamo vedere. «Nel 2008 ho iniziato a rappare, ma nel 2012 un incidente mi ha cambiato la vita, portandomi a incidere il primo disco. Da quel momento ho sentito il bisogno di dire le cose in un modo che reputo intelligente. Mi sono ricordato della musica rivoluzionaria che ascoltava mio padre e ho pensato che fosse arrivato il momento di espormi anche io. È così che ho iniziato a dire cose scomode».

A parlare di discriminazioni, sulla scia di quel ritornello consumato che purtroppo conosciamo a memoria: ci sono stranieri di seria A e stranieri di serie B. «Nella mia vita sono stato penalizzato per il cognome sudamericano che porto» ci racconta, «ma ci sono persone oneste e persone disoneste a prescindere dalla nazionalità. Ho scritto Via della Lungara 29 per parlare della mia esperienza in galera e l’ho dedicata ai miei compagni di cella».

Da quella cella è uscito con un’assoluzione ma senza quel lustro da copertina a cui si pensa quando si parla di gangsta rap. Anche il contratto che aveva con la Sony è stato interrotto. «Per fortuna delle persone vicine mi hanno aiutato a risollevarmi perché ero davvero a terra. Ma è dura vivere facendo solamente musica. Non me ne vergogno ma non è una cosa che mi nobilita come artista. Vorrei che i ragazzi sapessero che, se anche se la verità è scomoda e non paga subito, a lungo termine è la cosa giusta da fare. Vale sempre la pena lottare per essere un artista, per fare le cose in cui si crede».

L’Idroscalo di Chiky Realeza, dimenticato da tutti

Nel documentario Punta Sacra, per cui Realeza ha firmato il brano Essere se stesso, la regista Francesca Mazzoleni racconta l’ultimo lembo di terra abitato all’Idroscalo di Ostia, da cui prende il nome il film. Il rapper ci vive da anni ma ancora per poco, ci comunica lui con l’amaro in bocca, perché a breve passeranno le ruspe a buttare giù le case rimaste, lasciando per strada circa trecento famiglie.

«All’Idroscalo tutti ci vogliamo bene, c’è un forte senso di comunità. Ma non incontri una persona felice perché a unirci è il disagio. Vedo felici solo quelli che ci vengono d’estate. È un posto che ti inghiotte letteralmente, perché se piove per tre giorni di fila non puoi più uscire di casa. Io vorrei andare in un posto sicuro dove non devo tremare se viene troppo vento perché il tetto è di lamiera, dove l’eternit non mi fa venire il cancro».

Invece Punta Sacra è un non-luogo dove le alternative sono poche e l’ignoranza ti frega, sentenzia Realeza. Abbandonato dall’amministrazione e dalla politica, all’Idroscalo si sono stabilite comunità di rumeni e bulgari che «fanno comodo solo quando si alzano alle 4 del mattino per andare a costruire le case degli altri».