Eltjon Bida
C’era una volta un clandestino. I sogni, le speranze e le avventure di un albanese in Italia
(PubMe editore collana Policromia, 2019)
Sono passati 24 anni ma è la storia di sempre. Dei tanti come Eltjon Bida che aveva 17 anni e che un bel giorno salì su un gommone per lasciare l’Albania ed arrivare in Italia. Di quella traversata e di tutto quello che sarebbe successo dopo Eltjon Bida ha scritto un libro, il suo libro, la storia di tanti. Premiato con lo Special Awards Books for Peace 2019 e con il Premio della critica Milano International 2019, Eltjon Bida, 41 anni, una moglie e due figli, dopo aver lavorato come receptionist in un albergo di Milano, ora di dedica alla letteratura: «Ho iniziato a leggere un libro dietro l’altro e ho capito che avrei dovuto scrivere la mia storia». Figlio di un insegnante e di un’infermiera, questo giovane albanese fa parte della prima ondata di migranti che attraversarono l’Adriatico. Il permesso di soggiorno lo ottiene grazie a una sanatoria. All’inizio è durissima, vive nei depositi sui treni, chiede aiuto alla Caritas a cui dona parte dei proventi di questo libro. Il primo impiego è da venditore porta a porta, il diploma serale conquistato con sacrificio gli apre le porte del mondo del lavoro più qualificato. Diventa receptionist in un grande albergo e in 10 anni impara sei lingue.
Alla fine una storia di affermazione sociale come tante. Ma Eltjon Bida non può non guardarsi indietro. Né a quella notte di paura sul gommone spinto dal padre: «Avevo il terrore di finire sott’acqua come un topo, se il gommone si fosse rovesciato». Né a questi ultimi anni di grande impegno: «In Italia ho sempre trovato le porte aperte. Oggi forse, rispetto a vent’anni fa, ci sono solo alcune persone un po’arrabbiate. Ma non posso certo dire che l’Italia è razzista, l’Italia è la sorella maggiore dell’Albania, l’Italia ha un grande cuore». Dalla sua storia nascerà un altro libro che Eltjon Bida sta già scrivendo. Fabio Poletti
Avremo modo di conoscere direttamente questo giovane scrittore nell’evento:
Integrazioni Clandestine
lunedì 2 dicembre ore 20.00
Ristorante Samarkand
via Maffeo Pantaleoni 10 – Milano
costo della serata € 40
posti limitati, meglio prenotare a nuoveradiciaps@gmail.com
Per gentile concessione dell’autore Eltjon Bida e dell’editore PubMe pubblichiamo un estratto del libro C’era una volta un clandestino.
Giungemmo a Valona che erano le otto del mattino. La giornata era calda, e non si sarebbe detto che eravamo in pieno inverno. Dalla stazione dei pullman percorremmo due chilometri di strada a piedi tra le palme di via Gjergj Kastrioti fino ad arrivare al porto. Entrammo nel bar dove era stato fissato l’appuntamento e ordinammo due bibite. Ci sedemmo in un piccolo tavolo di fronte al banco e aspettammo. Eravamo gli unici due clienti. Il barista ci portò due lattine di Fanta, due bicchieri e volle sapere se c’erano delle novità.
«Niente» rispose papà. «Quel tuo contatto che ci hai consigliato ieri ha detto di aspettarlo qui stamattina. Vedremo.»
Il barista pulì il banco con uno straccio che una volta era bianco e alzò la testa. «Quanto vi ha chiesto?»
Mio padre versò la Fanta nel bicchiere. «Per passaporto, permesso di soggiorno e biglietto per il traghetto, complessivamente un milione e duecentomila lire.»
«È il prezzo di adesso, purtroppo» affermò il barista.
Vedendo il suo viso, quel signore sembrava un po’ più giovane di mio padre, ma i suoi capelli brizzolati mostravano dell’altro.
«Sai, ormai ho deciso di spendere quella cifra. L’importante è che mio figlio arrivi sano e salvo.» Papà bevve un sorso e tenne il bicchiere tra le mani.
Si aprì la porta e l’uomo che avevamo incontrato il giorno prima, di nome Rustem, fece il suo ingresso. Si avvicinò al nostro tavolo e papà gli chiese se volesse bere qualcosa.
«Un grappino per me, Abedin» ordinò al barista, poi si girò verso di noi e prese posto su un’altra sedia. «Ho parlato con il mio capo e tra poco andremo nel suo ufficio. Come vi ho già spiegato ieri, se lui decide di far partire il ragazzo» disse guardando me «oggi si fanno tutti i documenti e in giornata si parte per Brindisi. Avete le due foto che vi ho chiesto, no? Perché senza quelle non vi porto da nessuna parte.»
«Certo, certo che le abbiamo» dichiarai tirando fuori dalla tasca del giubbotto le due foto che avevo fatto a Fier. Erano state scattate in due giorni diversi. Ci era stato detto che la foto più vecchia sarebbe stata incollata sul passaporto e quella recente sul permesso di soggiorno. Rustem le esaminò e disse che erano perfette. Chiarì poi altri dettagli su come io mi sarei dovuto comportare, quanti soldi dovevo avere appresso e le frasi più importanti in italiano che dovevo sapere assolutamente. Alla fine ci ricordò che, nel caso non fossi riuscito a passare, potevo scegliere fra partire di nuovo successivamente o riavere i soldi indietro.
Con noi Rustem faceva tanto il sapiente, ma a me dava l’impressione che fosse una specie di facchino. Aveva vestiti vecchi, era spettinato e con una barba lunga di quattro giorni.
Ci alzammo tutti e tre e lasciammo sul tavolo per Abedin mille e cinquecento leke, esattamente il costo delle due lattine e del grappino. Proseguimmo l’uno dietro l’altro in silenzio su un vialetto in salita. Notai che più le strade si allontanavano dal corso centrale, più erano sporche e piene di buchi.
Entrammo in un edificio semi-spoglio. In tante parti della facciata l’intonaco era staccato, alcuni vetri sulle scale mancavano e altri erano rotti. Al secondo piano Rustem aprì una porta. Lì c’era un’anticamera. Si sentì subito un buon profumo di lavanda.
«Sedetevi pure.» Il nostro accompagnatore indicò cinque poltrone messe a elle. C’erano due porte, una a sinistra e l’altra a destra. Rustem bussò a quest’ultima e una voce lo invitò a entrare.
«Ho qua il ragazzo e suo padre, dell’appuntamento di stamattina» informò Rustem stando sulla porta con la testa dentro la stanza e il resto del corpo fuori.
«Di’ loro di aspettare un attimo… li chiamo io. Tu invece ora sai dove devi andare» disse una voce con l’accento del posto.
Rustem appoggiò la porta allo stipite e andò dove gli era stato detto. Io e mio papà aspettammo che la voce ci chiamasse. Presi una rivista da un piccolo tavolino lì vicino e diedi un’occhiata ai titoli. Era di gossip e la rimisi a posto. Dalla stanza dove aveva bussato Rustem si sentivano due uomini che parlavano. Io e papà alzammo le antenne.
«Ti posso portare da Tirana cinquanta permessi di soggiorno in una settimana se il pagamento sarà immediato e in contanti. Tutti permessi con timbri delle questure delle più grandi città d’Italia» disse una voce diversa della prima. L’accento era di Tirana.
«Bene. Per il pagamento non è un problema. L’importante è che la roba sia originale e di prima qualità. Quanti passaporti riesci a procurarmi, invece?» chiese la voce del posto.
«Tutti quelli che vuoi. Il mio amico che lavora nel ministero può far uscire più di venti passaporti al giorno, se il compenso è buono. Ovvio, tutti passaporti originali. Guarda qua.»
Sentii un clic, e qualche secondo dopo un altro clic, di borsello con chiusura metallica a scatto. Probabilmente stavano sfogliando i passaporti che l’uomo con l’accento di Tirana aveva menzionato.
«Qual è il tuo prezzo?» domandò il mio compaesano.
«Non sarebbe meglio se finisci prima con i signori che hai di là?» Ci fu un attimo di silenzio, poi sentimmo dei passi. La porta si aprì e comparve un signore sui quarantacinque anni. Aveva una capigliatura castana con pochi capelli bianchi sulle tempie, il viso rilassato. Era vestito elegante: completo grigio, camicia azzurra, cravatta rossa e scarpe nere. Ci disse di accomodarci e lo seguimmo.
L’ottimo arredamento che c’era lì dentro non c’entrava niente con quel palazzo. Le pareti erano pitturate di fresco, color mattone. Diversi quadri appesi rappresentavano paesaggi dell’Albania. I tendaggi erano nuovi, puliti e scelti con cura. I loro colori erano abbinati con le piastrelle del pavimento, bianche e nere, e con il divano scuro. In un angolo vicino alla finestra c’era una pianta verde e, alla parete opposta, sopra un mobile moderno, una fotocopiatrice. La grande stanza era luminosa e profumava di lavanda. In mezzo all’ufficio c’era un tavolo di vetro fiancheggiato da due poltrone regolabili, una per lato. In quella destinata all’ospite era seduto l’altro uomo. Lo salutammo e prendemmo posto sul divano.
Il “cravattino rosso” sedette di fronte all’ospite. Si appoggiò contro lo schienale e ci studiò per qualche secondo. Poi i suoi occhi si fermarono su di me e chiese in italiano: «Da quanto tempo stai in Italia?»
Lo guardai e non seppi cosa rispondere. Uno: non mi aspettavo che mi parlasse in italiano. Due: non sapevo proprio da quanto tempo avrei potuto dire di essere in Italia. Io in Italia non c’ero mai stato.
Non vedendo arrivare nessuna risposta da parte mia, mi fece la domanda più semplice che potesse farmi: «Capisci l’italiano?»
«Sì» risposi. Sentivo le mani sudare e d’istinto le sfregai sopra i jeans.
«E allora come mai non hai risposto alla prima domanda?» Guardando mio padre, aggiunse in albanese: «Non so quale sia l’età di tuo figlio, ma nessuno lo farà passare col traghetto. È troppo giovane. In pratica tuo figlio deve far capire alla polizia di frontiera che lavora in Italia già da qualche anno, perché il permesso di soggiorno nessuno te lo dà in poco tempo. E così, giovane com’è, nessuno crederà alla sua parola.»
«Ma io sono sicuro che ce la farò» intervenni cercando di non farmi prendere dall’angoscia. «Alla fin fine ho diciassette anni e non è che sia poi così giovane.» Che li avevo compiuti da poco più di un mese però non glielo dissi. «Proviamo…» aggiunsi con le mani unite davanti al petto in segno di preghiera.
«Io non faccio prove, ragazzo. Io voglio essere sicuro quando faccio partire qualcuno, perché non voglio “bruciare” un passaporto e un permesso. La polizia italiana, se capisce che hai carte false, i tuoi documenti o li sequestra o li strappa. Venite l’anno prossimo. Se cominciano a crescerti i peli sulla faccia non tagliarli. Più anni dimostri di avere, meglio è. Per ora non si può fare niente» concluse guardandoci uno alla volta con quei suoi occhi scuri.
Papà fece per dire qualcosa, ma l’uomo di fronte a noi alzò la mano destra facendo capire che il discorso era chiuso lì.
© PubMe Srl, Eltjon Bida