Quando è arrivato in Italia dal Camerun per studiare al Politecnico di Milano aveva 20 anni e solo un cugino a Torino. Voleva laurearsi e tornare nel suo Paese per lavorare nel settore petrolchimico. Era il 1988, un’epoca in cui gli studenti di origine africana erano pochi e venivano guardati più con curiosità che con astio. Ora è ingegnere chimico da 20 anni alla multinazionale Solvay e dall’anno scorso il primo presidente di origine africana ai vertici dell’associazione Coe, che dal 21 al 29 marzo organizza a Milano la trentesima edizione del Festival del Cinema Africano, d’Asia e America Latina.

L’ingegnere André Siani ha 52 anni, tifa la Juve sin da quando era bambino, ha un figlio di 18 anni che invece è milanista e una moglie interista. È questa è l’unica differenza culturale che non riesce a colmare. Per il resto è l’emblema dell’integrazione.

Oggi André Siani ricorda ancora di quella volta che, appena arrivato in Italia, scendendo in metropolitana, vide la gente correre su per le scale e si spaventò perché pensava che fosse accaduto qualcosa di terribile «Mi sono messo a correre anch’io perché ho pensato fosse scoppiata una bomba» , racconta ridendo, «ancora non sapevo che a Milano le persone non camminano, corrono. Venivo da una cittadina, Mbalmayo, a 50 chilometri dalla capitale, dove se qualcuno si metteva a correre era solo perché era accaduta qualche tragedia» .

Ora che è cittadino italiano, ha imparato anche lui correre veloce. L’ex studente straniero accolto dall’Associazione Centro Orientamento Educativo (COE) – fondata dal prete diocesano don Francesco Pedretti nel 1959 per favorire lo sviluppo di una cultura del dialogo e della solidarietà  – ha fatto molta strada. Dopo la laurea in Ingegneria chimica al Politecnico di Milano e un PhD a Zurigo per specializzarsi nella ricerca dei polimeri è entrato nella multinazionale Solvay, dove ha lavorato prima nella ricerca e poi nell’area tecnico-commerciale. «Grazie all’accoglienza del COE che mi ha aiutato integrarmi, mi sono innamorato del volontariato e dell’impegno sociale», racconta.

Il COE, presente con i suoi progetti in tre continenti, promuove progetti  di cooperazione allo sviluppo ispirati all’educazione alla cittadinanza mondiale, ma focalizzati soprattutto sulla cultura. Dal Camerun al Cile passando per il Benin e toccando anche la Cina.

Quando è diventato ingegnere e ha cominciato a occuparsi dei clienti della Solvay, tutti pensavano fossi americano perché pareva impossibile che un africano avesse il suo curriculum.

«Una volta sono entrato nell’ufficio di un amministratore delegato», racconta, divertito. «Per via del mio nome e cognome, si aspettava un ingegnere italofrancese. Quando mi ha visto, si è spaventato e ha chiesto, rivolto alla sua segretaria: “Cosa ci fa questo africano nel mio ufficio?”. Poi gli ho spiegato chi ero, cosa avevo studiato e pubblicato sulla ricerca dei polimeri e l’equivoco si è chiarito. Ero un bravo ingegnere africano che lavora per una multinazionale». Ora non accade più. A Milano vive un’atmosfera internazionale sia all’interno della Solvay sia nel COE. «Anche se l’Italia è cambiata e guarda allo straniero come capro espiatorio dei suoi guai».

Per André Siani, primo presidente di origine africana di un’organizzazione umanitaria presente in tre continenti, è importante che sia un africano a metterci la faccia. E trasmettere il messaggio che fare cooperazione allo sviluppo non è solo una cosa da bianchi.

«Inoltre la mia presenza serve come stimolo per incoraggiare altri come me a inseguire e realizzare le proprie ambizioni. La nostra associazione è nata sessant’anni fa in Valsassina, operando principalmente nel settore educativo. Quando parliamo di educazione, facciamo riferimento a progetti di formazione e di animazione tesi a uno sviluppo integrale dell’uomo. Lavoriamo per contribuire a creare una società di fratellanza, di amicizia e di scambio». In Italia l’attività del COE si svolge soprattutto con le scuole. «Abbiamo progetti di educazione alla mondialità, che svolgiamo sia nelle classi sia accogliendo i ragazzi nella nostra sede – spiega ancora Siani. Sfruttiamo molto il cinema: vedere un film girato in un Paese lontano è un’ottima occasione per conoscere popoli e culture diverse». La settima arte è in effetti uno dei fiori all’occhiello dell’associazione. «Il Festival è un momento importante, in una sola settimana riusciamo a raggiungere 15-20 mila persone. Ma non c’è solo quello. Oltre al Festival, portiamo i film in numerose rassegne, nelle parrocchie e nelle scuole, facendone una preziosa occasione per capire meglio le dinamiche che stanno alla base del fenomeno dell’immigrazione, oggi al centro dell’attenzione».

Prima di concludere l’intervista ci tiene a precisare che Siani è un cognome camerunense: «Anche mio bisnonno si chiamava Siani, siamo di etnia Bantu. E ora io sono un italiano nato in Africa che aiuta il suo Paese di origine e può vivere ovunque. Semplice, no?»