Alesa Herero è nata a Roma e da dieci anni vive a Lisbona dove si divide tra arte e attivismo. Collabora con la Compagnia Teatro Griot ed è stata una delle fondatrici dell’Istituto della Donna Nera in Portogallo. Ha partecipato con un suo racconto al libro Future. Il domani narrato dalle voci di oggi, curato da Igiaba Scego e edito da effequ. Il racconto s’intitola Eppure c’era odore di pioggia

Il suo racconto narra di un ritorno a Roma, dopo molti anni. E di un ritorno temuto, ma desiderato. Cosa significa tornare in Italia?

«Significa confrontarmi con emozioni contrastanti. Significa tornare a casa, alla terra che mi ha esiliata e con cui cerco di fare pace. Per molti anni, ho rifiutato tutto ciò che riguardava l’Italia; la considero ancora una società ostile e profondamente resistente al confronto col cosiddetto “Altro”, questa resistenza esiste anche anche in quegli spazi che si considerano “accoglienti”. Dove è difficile mettere in discussione se stessi per mettersi in una relazione non accondiscendente verso l’altro».

Che cosa le è mancato dell’Italia?

«Probabilmente oggi non mi manca l’Italia in sé ma il poter parlare sempre la mia lingua, il mio senso dell’umorismo romano che spesso in Portogallo non capiscono e, ovviamente, dopo dieci anni mi manca la cucina italiana».

A un incontro di circa un anno fa a Milano, organizzato nell’ambito del Festival Goes DiverCity, lei parlò di bianchezza. Un concetto su cui si sta iniziando a discutere. Cosa significa bianchezza?

La bianchezza è un sistema, è questa struttura imperiosa fondata su capitalismo, razzismo, patriarcato, classismo e dinamiche coloniali e paternaliste profondamente interiorizzate. Da secoli rappresenta la norma a partire dalla quale tutto il resto è diverso.

«Si concretizza nelle persone bianche ma ovviamente non sono le uniche ad esserne affette, tanto che Fanon si rivolge ai colonizzati invitandoci ad uccidere il colonizzatore che è dentro di noi. È una struttura che si erge a partire dall’usurpazione di terre e corpi, fino alla disumanizzazione, oggettificazione di ciò che non riconosce come uguale e comprensibile».

Può darci una definizione di bianchezza?

«La bianchezza non si auto-nomina mai, ma nomina e definisce sempre e comunque ciò che è al di fuori di lei, appropriandosene. E questo è un movimento che riproduce costantemente ancora oggi: inizia da terre e corpi fino all’appropriazione di pratiche ed espressioni culturali a lei estranee».

L’hip hop o il rap, per fare esempi recenti, sono nati nelle comunità nere per esprimere sé stessi e sono stati svalorizzati, considerati cultura da ghetto fino a quando i bianchi non se ne sono appropriati.

«Ma questo è vero anche per altri generi musicali, così come la spiritualità, l’architettura, la fluidità di genere e tanti altri elementi che esistevano nell’Africa pre-coloniale. E gli europei, non comprendendo, in alcuni casi hanno distrutto prima per appropriarsene e stravolgerli in un secondo momento».

Per quale motivo distruggere, per poi appropriarsene e ridefinire?

Questa tendenza alla distruzione di ciò che non mi appartiene, che è diverso da me, deriva dalla difficoltà del bianco di accettare che non tutto è comprensibile razionalmente.

«La bianchezza  fonda la sua esistenza a partire dalla ragione, Cogito ergo sum. Nella cultura africana invece non c’è solo la testa e la razionalizzazione di ogni cosa: c’è un essere umano che si esprime a partire dai vari piani che compongono la sua esistenza, razionale, irrazionale, spirituale, corpo nella sua interezza ma anche aspetti non tangibili».  

Per cui anche la solidarietà è frutto della bianchezza?

«Il paternalismo non è solidarietà e ancor meno lo è la sindrome del “colono salvatore e civilizzatore” di cui ancora oggi soffrono molti bianchi. La solidarietà che si pratica spesso oggi cela spesso proprio questa sindrome piuttosto che un approccio utilitaristico rispetto all’accettazione o meno della presenza dell’ “Altro”, nello specifico del Nero».

Può farci degli esempi?

«Un esempio di questo utilitarismo è il modello Riace. Da tutti considerato un esempio virtuoso, in realtà a me lasciava sempre una sensazione di sconforto, qualcosa non mi convinceva. A Riace, il migrante, Africano, Nero, il più indesiderato, è ben accetto perché utile. Utile a rivitalizzare un luogo ormai abbandonato. Rientra nella logica dello sfruttamento di capitale umano ormai radicato nelle società capitaliste. E il corpo storicamente capitalizzabile per eccellenza e senza dubbio il corpo nero. È la narrazione storica che il bianco ha da sempre fatto su di noi, in tutte le sue varie trasformazioni. Crea discorsi che in fondo non scioccano l’immaginario collettivo su ciò che è o dovrebbe essere, un Nero».

Non si salva, neppure la carta dei diritti universali dell’ONU?

«Basta pensare alla data in cui fu emessa quella carta, 1949, praticamente tutta l’Africa era ancora colonizzata e l’Europa disponeva dei nostri corpi e dei nostri territori come meglio credeva. Quando si parla di universalità si parla innanzitutto di uomini bianchi; anche le donne bianche furono escluse da questo concetto per molto tempo. Ma in nessun momento può voler includere soggetti non bianchi».

Alesa Herero, ha una frase che possa spiegare il proprio attivismo?

«Ne ho varie ma ce n’è una di Sartre che mi ha fatto pensare molto: “Non è importante cosa fanno di noi, ma quello che facciamo a noi stessi di ciò che gli altri hanno fatto di noi” ».

Questa frase è la frase di un intellettuale europeo, si riuscirà ad arrivare rispettando le differenze ad avere una cultura comune? O meglio universale?

Non credo che debba essere così necessario avere una cultura comune ma piuttosto un senso di umanità comune. L’universalità, così come la pensiamo oggi, è frutto di società prevalentemente bianche e fortemente razzializzate.

«Bisognerebbe decolonizzare il concetto stesso di universalità e sperare nella costruzione di società post-razziali, sulla cui possibilità sono abbastanza scettica. Non così a breve termine almeno, non fino a che non avremo ucciso il colonizzatore che è in ognuno di noi».