Blessing ha 22 anni, nel 2017 è arrivato dalla Nigeria. Dopo un anno nel Centro di accoglienza gestito dall’Arci a Carovigno vicino Brindisi, ha trovato Alessia e Lorenzo che gli hanno aperto la porta della loro casa. Brice ha 28 anni, tre anni fa è arrivato in Italia dal Camerun. Brice, che gestisce un atelier di moda e ama definirsi «sarto di professione e parrucchiere per hobby», da maggio vive a casa di Ada a Mola vicino a Bari. Quando Mamadou è arrivato in Italia dalla Guinea tre anni fa, era ancora minorenne. Dopo essere stato parcheggiato a lungo nei Centri di accoglienza per minori la scorsa estate è andato ad abitare ad Imola a casa di Anna e di suo figlio Nicola, quasi coetaneo di Mamadou: «La prima cosa che ho fatto è stata introdurlo nella compagnia dei miei amici».

In questi tempi cupi, queste tre storie sembrano avere il lieto fine natalizio che sarebbe piaciuto a Charles Dickens. Hanno un senso di redenzione che potrebbe farci dimenticare, almeno per un momento, almeno per oggi, l’Italia cattiva dei porti chiusi, del dimentichiamoli a casa loro, dei luoghi comuni più retrivi di chi pensa che le porte agli stranieri sia sempre meglio tenerle chiuse a doppia mandata.

E invece di storie vere come questa ce ne sono 200, da Aosta a Cagliari, da Milano a Catania. Duecento famiglie in 30 città sparse in 17 regioni che hanno aperto la porta di casa ad altrettanti rifugiati, spesso appena maggiorenni, alla ricerca di un aiuto iniziale per poter affrontare la loro vita con maggior serenità.

Il progetto

Il progetto si chiama Refugees Welcome Italia, è attivo da cinque anni. Per aderire, un rifugiato in attesa di aiuto, una famiglia accogliente, può trovare tutte le indicazioni sul sito Refugees Welcome Italia. Basta avere una camera in più per aprire la propria casa a un rifugiato. E una disponibilità di almeno 6 mesi per verificare e cementare la convivenza. Non c’è alcun tornaconto economico. Chi apre le porte a un rifugiato non guadagna nemmeno un euro. Deve invece spenderne per aiutare il nuovo ospite, un futuro nuovo italiano scappato dall’orrore di una guerra alla ricerca di quello che cerchiamo tutti e a volte dimentichiamo di avere anche se è il bene più prezioso, pace e calore umano.

A Refugees Welcome Italia, a leggere bene, non hanno progetti ambiziosi. Non vogliono la luna. «Promuoviamo l’accoglienza in famiglia dei rifugiati: un modo per conoscersi, superare pregiudizi e costruire insieme una società più aperta e inclusiva». Sembra facile, ma è la semplicità più difficile da farsi. Forse perché siamo tutti troppo abituati a guardare allo straniero come a uno diverso da noi, anche se è della nostra stessa razza, quella umana. E a pensare che ad ogni porta debba corrispondere una serratura con una chiave, per chiuderci dentro il nostro confortevole universo.

Quanto sia importante uscire, anche dai nostri pregiudizi, lo stiamo verificando in questo 2020 che va a finire e che ci ha costretto ad innaturali chiusure. Al punto da farci rimpiangere ogni relazione umana.

Ma come spiegano a Welcome Refugees Italia ogni relazione è una ricchezza: «Promuoviamo un modello di accoglienza che, proprio perché basato sullo scambio, l’incontro e la conoscenza reciproca fra rifugiati e cittadini italiani, può contribuire a combattere pregiudizi, discriminazioni e luoghi comuni».

L’accoglienza in famiglia fa bene a tutti: non solo ai rifugiati, ma anche ai cittadini che decidono di aprire le porte della propria casa. Chi ospita in casa un rifugiato ha l’opportunità di conoscere una nuova cultura, aiutare una persona a costruire un progetto di vita nel nostro Paese, diventare un cittadino più consapevole e attivo, creare nuovi legami.

Amadou e Awa e Tiziana e Pierfranco e Federico

Lo sa bene Amadou arrivato in Italia dal Senegal nel 2018 e che ora sta studiando per diventare un tecnico specializzato, ospite a casa di Tiziana e Pierfranco e del loro figlio Federico, che durante il Ramadan hanno deciso di spostare la cena alle 21 per essere tutti insieme a tavola: «La cosa più bella di questo percorso è accorgersi di come sia normale ciò che stiamo facendo, ci si conosce poco alla volta e tutto diventa giorno dopo giorno naturale. Sin da subito abbiamo compreso di essere molto simili e capaci di adattarci l’uno con l’altro». O Awa che ha 25 anni, viene dal Gambia ed è finita in una famiglia bolognese che aveva già aperto le porte di casa ad altri stranieri. Awa che sta frequentando un corso di cucina, ha portato a casa di Anna e della sua famiglia i sapori della propria terra. Alla fine, conoscenza e integrazione, sono pure questo, come spiega Anna: «Ogni convivenza ci ha donato qualcosa, la nostra famiglia si allarga sempre di più e di una cosa siamo certi: non siamo destinati a rimanere soli!». Di questi tempi non è poco, è il molto che ci fa cambiare il mondo.

Foto: Refugees Welcome Italia / Facebook