L’arte non rivoluziona la società. Con le canzoni, è possibile aiutare le persone a maturare consapevolezza e fare piccoli passi verso il cambiamento, ma la rivoluzione sociale avviene attraverso iniziative della politica.
Gato Barbieri, Argentina, musicista
Alessandro Robecchi, milanese, giornalista, autore televisivo e teatrale. Scrive da un decennio i testi di Maurizio Crozza. Ha pubblicato numerosi libri, l’ultimo romanzo per Sellerio è Follia maggiore. Il dibattito sugli stranieri nel nostro Paese riguarda soprattutto gli sbarchi. Ma ci sono 1 milione e 300 mila nuovi italiani. 240 mila solo l’anno scorso. Non li vediamo o ci fa comodo non vederli?
È solo la propaganda che ha messo in primo piano gli sbarchi perché serviva a creare paura. Qualcuno ricorda Salvini e l’ebola che arrivava sui barconi? La sinistra, chiamiamola così, ci cascò con tutte le scarpe, perché temeva di perdere consensi, e produsse Minniti. Al di là delle decisioni operative, si è accettata in toto una filosofia che riconosceva il dramma del Mediterraneo come un’emergenza “nostra”, e non un’emergenza “loro”, pazzesco, vero? Un errore di prospettiva che costa carissimo, perché una volta che hai ammesso un’emergenza, se poi arriva quello che la risolve drasticamente e senza alcuna umanità viene accettato, anzi, acclamato. Si può dire che Minniti ha tracciato il solco, insomma, e questa è una cosa che resterà, oltre a rendere molto difficile fare un’opposizione credibile a Salvini da parte del Pd. Ma questa è politica, chissenefrega.
I nuovi italiani, gli immigrati che lavorano, pagano le tasse, mandano i figli a scuola non si vedono perché fa comodo non vederli. Rovinano la narrazione dell’assedio, dell’invasione, della situazione fuori controllo. Ogni giovane italiano che va a scuola ha accanto italiani neri, gialli, stranieri, insomma, sa che non mordono, non puzzano, non fanno le rapine. Dovrebbe essere un incentivo a farne di più, di italiani nuovi, invece si pesta sempre sul tasto della delinquenza, degli stranieri che non si integrano, nascono le favole dei trentacinque euro, degli alberghi di lusso… Se si va a vedere la narrazione che si faceva sugli ebrei nel ’38 è la stessa cosa, si usava “pietista” invece che “buonista”.
Da noi si discute invece solo di emergenze. Sembra non ci siano alternative: i migranti sono o un problema o tutte vittime?
Se posso provare a cambiare la prospettiva, il problema non sono gli stranieri, ma gli italiani. E ancora una volta è una questione di classe. Abbiamo un proletariato sempre più precario e insicuro a cui è negata qualunque prospettiva, e una borghesia, la piccola e media borghesia, che sente il terreno scivoloso sotto i piedi, teme la proletarizzazione, vede che i suoi figli non avranno quello che hanno avuto i padri. C’è insicurezza e paura, e in questi casi si indica al penultimo l’ultimo della fila, il classico sistema del capro espiatorio. Dire “sono un problema” è sbagliato, perché non lo sono, e anzi potrebbero essere la soluzione, penso a tutti i paesi spopolati, alla nostra disastrosa situazione demografica. Al tempo stesso bisogna combattere il pietismo. Il pietismo, il “oh, poverini” cambia segno alla prima offensiva della propaganda, si comincia a dire “poverini”, poi si dice “poverini, però…”. No, credo che si debba recuperare razionalità, le grandi migrazioni non si sono mai fermate con i muri, bisogna governarle, ma per governarle bisogna guardare in là, venti, trent’anni, come fece la Francia, che pure ha i suoi problemi con la banlieue. Qui si governa guardando i sondaggi giorno per giorno, e così viene premiata la pancia e non il cervello.
Lo stereotipo dell’extracomunitario che fa il lavoro che gli italiani non vogliono fare non andrebbe sfatato davanti a questi nuovi italiani che si stanno imponendo sempre più in alto nella scala sociale? Imprenditori, chirurghi, ricercatori…
Questa dei lavori che gli italiani non vogliono più fare è una clamorosa bufala. Gli italiani non vogliono più fare quei lavori perché il mercato ha capito che sono lavori che si possono pagare meno e farli fare agli ultimi della fila. Non sono gli italiani che si alzano alla mattina e dicono, basta, non lavo più i cessi, è il mercato che dice: ora per lavare i cessi ti do uno stipendio da fame, un contrattino di due mesi, non ti pago gli straordinari… Il nemico è il mercato. Gli italiani dovrebbero lottare per condizioni di lavoro migliori, salari più alti, più diritti, per loro e per gli immigrati. È un po’ difficile se hai una sinistra – teoricamente la parte che dovrebbe farlo – che flirta con Confindustria… Quanto all’extracomunitario che si fa strada, che diventa qualcuno, dovrebbero rivendicarlo di più, farlo valere, ostentarlo. Mi viene in mente Miles Davis che girava in Ferrari, i vestiti firmati, i milioni di dollari, che diceva: «Vi fa paura il negro ricco, eh!». Trovo che stiano troppo in silenzio, che gli stranieri di successo – che sono italiani di successo – dovrebbero pesare di più. Il problema è che qui sono mosche bianche…
Magliette rosse o “tornate a casa vostra”. Non crede che il tifo da stadio renda impossibile quello che sta accadendo nel nostro Paese?
Il tifo da stadio c’è nella teoria. Poi, nella pratica, la gente porta i bambini a scuola, che hanno compagni stranieri, e allora il tifo diventa “È negro, ma è una brava persona”, un po’ di vaga umanità e un po’ di paternalismo. Ma il tifo è anche una componente della paura, del nervosismo. C’è la storiella, no? Ci sono dieci panini sul tavolo, nove se li mangia il padrone, e poi dice all’operaio: attento che l’immigrato ruba il tuo panino! Ecco, mi spiace ripetermi, ma è sempre una faccenda di classe. Tutti liberali, tutti liberisti, mentre servirebbe un po’ di socialismo, anche in dose minima, ma insomma, invertire la tendenza. I ricchi non sono mai stati così bene, bisognerebbe far preoccupare un po’ loro. Invece impera la stupida teoria che se i ricchi mangiano tanto, qualche briciola cadrà dal tavolo anche per i poveri. È una visione che – non solo qui – è stata cavalcata dalla sinistra (penso alla legge sul lavoro scritta da Confindustria) e che poi Salvini ha tradotto nel sogno assurdo della flat tax. Se fai politiche di destra arriverà la destra vera, si è visto in modo chiarissimo, direi.
Il Paese si è emozionato davanti alla vittoria della staffetta italiana a Saragozza. Tutte nostre connazionali anche se di pelle scura. Non è che gli stranieri ci piacciono solo se ci divertono, ci fanno vincere o si spaccano la schiena per noi? L’immagine del buon zio Tom alla fine non è la più rassicurante?
Mah, io credo che l’Italia non si sia emozionata più di tanto, ho visto qualche tweet, qualche titolo di giornale… si è risposto a una retorica con un’altra retorica. Ma certo, lo straniero funziona se è Balotelli (e anche lui subisce attacchi vergognosi), se è Muhammad Alì va benissimo. Il pugile nero, il centometrista, gli battiamo le mani, ma poi che stia al suo posto… un classico. La differenza con lo zio Tom, così perfettamente funzionale allo schiavismo, è che lui aveva introiettato la sua realtà di schiavo e l’accettava, in qualche modo. Mentre qui gli schiavi non vogliono essere schiavi (penso ai raccoglitori di arance, Rosarno insegna), ma nessuno, tanto meno lo Stato, fa qualcosa per loro. In Mississippi Burning, lo Stato mandava decine di federali, faceva la voce grossa. Qui si legge periodicamente di episodi di sfruttamento indecenti, ma non c’è una risposta all’altezza. Bisognerebbe spiegare alla gente che non può pagare le arance un euro al chilo al supermercato, che questo incentiva a far lavorare gli schiavi, ma è una cosa impopolare, si perde qualche voto, e non lo fa nessuno, a parte qualche sindacalista sul posto, che rischia la pelle, e a volte ce la rimette proprio. Il nostro Mississippi non ha un Gene Hackman col distintivo che prende a schiaffi i razzisti, molto male.
L’italia è un Paese razzista?
Difficile dire sì o no. Certo le teorie razziste sono nate qui, un intero regime durato vent’anni di lutti e ingiustizie si basava su quell’ideologia, che era un’ideologia della classe dominante che offriva un capro espiatorio debole alla rabbia del suo popolo. È quello che sta facendo oggi Salvini, il meccanismo funziona sempre, ed è interessante vedere come il razzismo sa cambiare pelle. C’era quello contro i meridionali, contro i rom c’è sempre stato. L’abilità del razzismo sta nel convincere la gente che il nemico che le ruba dei soldi è lo sfigato che si frega un chilo di rame e non il finanziere che specula sulle banche popolari e guadagna 600.000 euro in una notte grazie a una dritta sospetta… Il razzismo è prendersela con gli ultimi dimenticandosi i privilegi dei primi. Quanto alla gente… penso alla cosa che mi ha fatto più impressione a Mauthausen: le fattorie, le cascine, il paesino lì davanti. Buoni cittadini del Reich che vivevano a due passi dalla fabbrica della morte e fingevano di non sapere, di non vedere… ecco, la prima cosa è impedire che gli italiani fingano di non vedere. Poi ci sono i militanti della menzogna, quelli che guardano la foto di Josefa salvata in mare e dicono “è falsa”, “è una messa in scena”. Ecco, quelli sono in malafede, quelli sono il nemico da battere, il virus che infetta tutto.
La letteratura si è sempre occupata di migrazioni e migranti. Magari in Italia meno. gli intellettuali, gli scrittori, che ruolo possono avere di questi tempi?
La letteratura ha scritto pagine magnifiche su migrazioni e migranti. E nelle rappresentazioni più vive, più intense, si vede bene che la questione è di classe, non di etnia. Ricordo lo Steinbeck di Furore. Posso citarlo a memoria: «Dove c’è lavoro per uno, accorrono in cento. Se quell’uno guadagna trenta cents, io mi contento di venticinque. Se quello ne prende venticinque, io lo faccio per venti. No, prendete me, io ho fame, posso farlo per quindici. Io ho bambini, ho bambini che han fame! Io lavoro per niente; per il solo mantenimento». Razzismo e capitalismo viaggiano abbracciati. Non si può spiegarlo meglio, davvero. Credo che gli scrittori debbano raccontare quello che esiste, quello che ci sta intorno, farlo vedere anche a chi non lo vede. Non è un caso che ogni regime sputi sugli intellettuali – culturame, intellettuali dei miei stivali, professoroni – per non parlare della retorica stupida sui radical chic. La vulgata è: lui fa lo scrittore, ha il culo al caldo, cosa vuoi che ne capisca? Invece la letteratura – e il cinema, e la musica, e in qualche caso lo sport, e in generale il pensiero complesso – servono proprio a combattere questo flat-pensiero che le cose siano semplici, che basta pestare gli ultimi perché i penultimi siano contenti.