Cosa c’entra l’appropriazione culturale con le adozioni internazionali? Il dibattito sull’appropriazione culturale contro la cultura dominante è in auge in America e si è diffuso anche in Europa. Si stanno affermando posizioni esclusive nei confronti della diversità, dalla sessualità al colore della pelle. Ovvero, c’è che sostiene che i soli appartenenti alle comunità LGBT, afroamericana o dei nativi americani, ad esempio, possano parlare di sé stessi e delle problematiche, tematiche o questioni relative alla propria comunità. Adozioni comprese. Stando alle posizioni di alcuni adottati adulti, nello specifico, affido e adozione di un bambino afrodiscendente, ad esempio, dovrebbero essere permesse solo a coppie di afrodiscendenti. Madre di Shanthi, nata in India 24 anni fa, Paola Crestani ci racconta il suo punto di vista di madre e di presidente del Ciai (Centro Italiano Aiuti all’Infanzia), storica associazione storica delle adozioni internazionali.

Qual è la filosofia che ha sempre guidato il Ciai?

«Il Ciai è stato fondato nel 1968, da un gruppo di famiglie che avevano iniziato il percorso dell’adozione internazionale. Alla base, c’è la nostra convinzione che ogni bambino al mondo avrebbe potuto essere nostro figlio. Noi sappiamo che è possibile amare un bambino proprio come si ama il proprio figlio: abbiamo sperimentato con i nostri figli il bisogno di rispetto, attenzioni, ascolto e cura».

Oggi ci sono adulti adottati che mettono in dubbio la bontà delle adozioni internazionali. Cosa ne pensa?

«Prima di un’adozione internazionale c’è un lungo percorso per preparare i futuri genitori ad affrontare problemi e difficoltà che l’accoglienza di un bambino comporta. Non basta solo l’amore per essere buoni genitori. Al contrario di molti anni fa, adesso c’è molta più attenzione nel preparare tutta una famiglia, nel senso che tutti i componenti vengono coinvolti, dai nonni che sono fondamentali a tutta la parentela che diventerà la prima comunità del bambino. Al Ciai abbiamo adulti adottati che si incontrano e confrontano le loro esperienze».

Cosa raccontano?

«Molti di loro hanno avuto una vita di alti e bassi, come tutti, e un rapporto di normale conflittualità figlio-genitori. Sostengono l’adozione proprio perché ne conoscono tutti gli aspetti».

Molti sanno che hanno vissuto e vivono un’esperienza personale che rende la diversità una ricchezza. Sviluppano negli anni una visione del globale che li rende ancora più cittadini del mondo e li aiuta ad essere protagonisti nella loro vita.

Quindi cosa può essere successo, perché un adulto adottato si pone contro le adozioni internazionali, secondo lei?

«Ogni caso è a sé stante, soprattutto per quanto riguarda ragazzi che sono entrati in famiglie che non erano abbastanza preparate, a maggior ragione se sono stati inseriti in un contesto non aperto alla diversità. Ricordiamo che molti anni fa i bambini venivano dati più facilmente dai Paesi di provenienza, sia dall’Africa, dall’Asia o dall’est Europa. Molte volte hanno pagato il dramma  di essere stati adottati con sistemi poco chiari, senza controlli e preparazione da parte delle famiglie, trovandosi in situazioni non semplici. Ci sono stati casi di adozioni da Paesi in guerra, che non si sarebbero neanche potute fare. Si tratti di casi che hanno portato alcuni a considerare l’adozione come una forma di colonizzazione».  

Cosa ne pensa dell’idea di permettere l’adozione di un bimbo solo ed esclusivamente a genitori della stessa etnia o religione?

«Penso sia giusto che i bambini possano essere adottati solo da famiglie che sappiano amarli. Di qualsiasi etnia o religione. Porre questi limiti significa ergere muri invisibili e inutili. Bisogna solo e sempre, so di ripetermi, rispettare i diritti di ogni individuo, a maggior ragione di un figlio».

Quale è la ferita più difficile da rimarginare per un figlio adottato?

«Sicuramente la ferita dell’abbandono, che può incidere in molti aspetti della loro vita, anche affettiva».