Se Internet fosse esistito cinquant’anni fa, NRW avrebbe certamente raccontato dell’emigrazione italiana in Svizzera, perché la Svizzera era, e continua a essere, uno dei Paesi in cui la presenza italiana è più numerosa.

La gerarchia tra gli stranieri in Svizzera

La migrazione in Svizzera era regolata dalla legge federale concernente la dimora e il domicilio degli stranieri, promulgata nel 1931 e in vigore dal 1934 fino all’inizio di questo secolo. Venne stabilito un insieme di regole che condizionava la vita degli stranieri; tra queste, a seconda del Paese di origine dei migranti, erano previste delle leggi speciali, che erano state oggetto di accordo con i rispettivi governi. Si creò così, a seconda delle condizioni, una sorta di gerarchia tra gli stranieri.

Lo statuto stagionale (permesso A) proibiva ai lavoratori in condizioni di povertà di vivere in Svizzera con la famiglia. A chi era in possesso del permesso di dimora annuale (di tipo B) il ricongiungimento familiare era garantito solo a determinate condizioni. Si otteneva una certa sicurezza solo con l’ottenimento del permesso di domicilio (di tipo C), che poteva arrivare anche dopo oltre dieci anni

L’esecuzione della legge venne affidata alla Polizia degli stranieri, che in taluni casi non mancò di mostrarsi razzista.

La separazione delle famiglie

La stragrande maggioranza dei nostri connazionali è arrivata in Svizzera con un permesso di tipo A e ne ha  subito tutte le conseguenze, prima fra tutte quella della separazione dal resto della famiglia.

Quando in famiglia entrambi i genitori lavoravano, secondo la legge era inevitabile che i figli restassero nel Paese di origine. E così molti bambini venivano cresciuti da nonni e zii, e vedevano i genitori solo per pochissimi settimane l’anno

Una di loro, Sonia Sozza ha rivelato di come considerasse i genitori come degli estranei, e di come, allo stesso tempo, si sentisse un po’ meno di una figlia per nonni e zii. I genitori che non avevano parenti che li aiutassero erano costretti a portare i figli in collegio nei paesini nei pressi della frontiera, quali ad esempio Domodossola. I bambini più fortunati ricevevano la visita dei loro genitori ogni fine settimana, ma non era così per la maggior parte di loro. C’era chi vedeva i genitori una volta al mese, e chi addirittura ogni tre mesi; tutto dipendeva da quanto lontano lavorassero i genitori, e se erano costretti a lavorare nel fine settimana.

I bambini proibiti

C’erano poi quei bambini che non avevano zii e nonni che si occupassero di loro in Italia, e nemmeno l’opportunità del collegio.

Questi bambini vivevano nascosti in casa, imparavano fin da piccoli a non fare rumore, a non affacciarsi mai alla finestra, per paura che i vicini potessero scoprirli e denunciarli alla polizia. Quando questo accadeva, la conseguenza era l’espulsione

In Italia noi ignoravamo queste storie, perché i migranti, quando rientravano per le vacanze, preferivano dimenticare i dolori e le tragedie quotidiane, e raccontare solo i successi, come per esempio la possibilità di acquistare un’automobile nuova. L’altra, ovvia, ragione,  è che non si pubblicizza una situazione di illegalità. Per quanto assurdo possa sembrare, questi bambini nascosti erano illegali, dei veri e propri “bambini probiti”. È questa l’espressione che la psicologa Marina Frigerio ha usato per intitolare il suo libro, in cui raccoglie le sue esperienze di lavoro con tanti ex bambini nascosti, nonché le storie di diversi di loro. Una delle ex bambine nascoste è Catia Porri, splendida settantenne che rimase nascosta nell’armadio di casa per 3 anni.

Ricordate la battuta di Nino Manfredi nel film Pane e cioccolata, ‘In Svizzera negli armadi ci sono più bambini che tarli?’. Era tutto vero

Da anni Catia racconta la sua storia, per far sì che tragedie come quella vissuta da lei non si ripetano più. A noi, Catia ha raccontato i viaggi verso l’ Italia con l’auto del padre, per ottenere il timbro di uscita sul passaporto, per poi rientrare subito dopo, nascosta nel bagagliaio. La clandestinità è costata a Catia, tra le altre cose,  la possibilità di frequentare le scuole.

Le pulsioni xenofobe della Svizzera

Oltre ai bambini clandestini, la Svizzera è stata il primo Paese in cui le pulsioni xenofobe hanno trovato posto in Parlamento, grazie a James Schwarzenbach, deputato dell’estrema destra che propose di espellere trecentomila migranti dal Paese, sebbene non ci fossero problemi di disoccupazione. La popolazione elvetica fu chiamata a esprimersi su questa proposta nel 1970 (il cosiddetto referendum Schwarzenbach) e ancora nel 1974. Ha raccontato quei tempi il giornalista e scrittore Concetto Vecchio nel suo libro Cacciateli!, pubblicato nel 2019 da Feltrinelli, tradotto in tedesco nel 2020 e da allora un best seller in Svizzera. Sonia Sozza ricorda, di quei tempi, che per mesi lei e la sua famiglia hanno vissuto con la valigia all’ingresso, pronti a scappare in caso di pericolo imminente.

La situazione, almeno per i cittadini europei, migliorò nel 2002, grazie alla firma degli accordi bilaterali, che prevedevano la libera circolazione dei cittadini, ma i tempi buoni non sono durati a lungo. Con l’approvazione, nel 2014, dell’iniziativa ‘Contro l’immigrazione di massa’, la possibilità di dividere le famiglie di stranieri è di nuovo prevista dalla Costituzione elvetica

L’associazione Tesoro

Per dire basta a tutto questo è nata, il 1 ottobre scorso a Zurigo, l’associazione Tesoro. Tra i fondatori, si contano diversi ex bambini nascosti. L’associazione intende rappresentare gli interessi dei membri delle famiglie che hanno subito le conseguenze dello statuto dello stagionale e del permesso annuale di soggiorno. Per Tesoro non basta che le persone direttamente coinvolte rompano il silenzio, ma è tempo che anche l’opinione pubblica sia pronta a elaborare la condizione di illegalità in cui molte famiglie sono state costrette a vivere e riconosca il contributo che le straniere e gli stranieri hanno portato allo sviluppo della Svizzera.

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