«Questa pandemia ha ucciso anche la solidarietà», mormora l’avvocatessa Francesca Napoli. Ha una voce stanca, più che indignata, nel ricordare il ritrovamento di una nave dispersa nel Mediterraneo. Il bilancio è di 12 persone morte di sete o annegate, mentre altre 55, dopo in mare da una settimana, sono state riportate esattamente nel luogo da dove sono fuggite, sotto le bombe libiche.

I porti chiusi

«Una scelta disumana. Frutto di una mancanza di umanità anche italiana, è inutile girarci attorno  Tutti sapevano che quelle persone erano in difficoltà, non solo Malta, e nessun Paese è intervenuto. Violando anche il principio di cooperazione tra Stati che è alla base del diritto internazionale che regola i salvataggi in mare». La rete conosce l’avvocatessa Napoli tramite il suo account Instagram, Storiedallaltromondo, attraverso il quale racconta i drammi di rifugiati, richiedenti asilo, migranti ed esclusi, alcuni dei quali assiste personalmente, come legale. Negli ultimi giorni il suo account ha seguito, come tanti, il caso di una dolorosa sparizione nel Mediterraneo, quella di una imbarcazione con 55 persone in fuga dalla Libia e lì rispedite proprio ieri.

Una storia che è il simbolo della chiusura dei cuori e delle menti, oltre che dei porti, al tempo del Coronavirus.

Tutto inizia, da un certo punto di vista, lo scorso 7 aprile 2020, quando un decreto interministeriale siglato dai ministri delle Infrastrutture, dell’Interno, degli Affari esteri e della Salute ha stabilito che per l’intera durata dell’emergenza sanitaria legata al Covid-19 i porti italiani non assicurano i necessari requisiti per la classificazione e definizione di porto sicuro. In un (macabro) gioco di scacchi, Malta ha seguito l’esempio, chiudendo anche i suoi porti. Nel frattempo anche le autorità di Tripoli a causa dei pesanti bombardamenti in corso, hanno impedito per molte ore lo sbarco di alcuni migranti intercettati in mare e riportati indietro dalla Guardia Costiera libica «Insomma il Mediterraneo, già praticamente svuotato, negli ultimi tempi, da ogni forma di monitoraggio e soccorso, si è ritrovato totalmente deserto. La soluzione a tutti i problemi, come al solito, è diventata quella di rispedire sotto le bombe e le torture della Libia chi scappa dalle bombe e dalle torture della Libia». 

Nave sparita, soccorsi fantasma

Esattamente una settimana fa, lo scorso venerdì sera, la piattaforma per il soccorso di imbarcazioni di migranti in difficoltà Alarm Phone ha ricevuto numerose richieste d’aiuto, inoltrate ai centri di coordinamento per i soccorsi in mare di Roma e La Valletta, oltre che ai velivoli di Frontex: una nave con 55 persone a bordo risultava dispersa tra Italia e Malta. Nella serata di lunedì le autorità maltesi aveva inoltrato richiesta di intervento e un cargo portoghese partito dalla Libia e diretto a Genova, deviando dalla rotta, era riuscito a individuare il gruppo disperato in mare. Ma le alte paratie dell’imbarcazione, non certo pensate per il soccorso in mare, avevano reso impossibile l’operazione: rassicurata dall’intervento maltese, la barca aveva ricevuto l’ordine di proseguire verso Genova senza prestare ulteriore soccorso. Da quel momento, il silenzio radar, letterale: « «Vogliamo la verità sulle 55 persone disperse. Non è sostenibile che donne bambini e uomini chiedano aiuto per sei giorni e i governi di due Paesi aspettino che vengano inghiottiti dal mare», s’indignava Alessandra Sciurba, presidente di Mediterranea Saving Humans, di fronte al cocciuto silenzio di Malta.

Il timore si è avverato ieri, quando si è scoperto che i 55 (tra i quali 12 morti di fame e di sete, o annegati tentando di fuggire a nuoto) sono stati intercettati e ricondotti in una Libia in fiamme.

Bombe e virus

«C’è chi in Italia continua a usare la metafora della guerra per narrare la pandemia. Ma c’è chi questa pandemia si trova a viverla per davvero in guerra, cercando di difendersi dal virus in condizioni igienico sanitarie molto precarie, mentre rischia quotidianamente la vita sotto le bombe», ricorda Napoli. «Haftar sta approfittando dalla distrazione generale per colpire i civili. A Tripoli i bombardamenti hanno distrutto l’ospedale deputato alla cura e all’assistenza dei malati di Covid. La situazione è così grave che una settimana fa un gruppo di centinaia di migranti in fuga, intercettati dalla guardia costiera libica, è stato trattenuto in porto per oltre 10 ore senza poter sbarcare a causa delle esplosioni che colpivano le aree circostanti». Qualche giorno fa la nave militare italiana Gorgona era stata costretta ad allontanarsi dal porto tripolino proprio a causa dei bombardamenti.

La scelta di rimandare nell’inferno di Tripoli persone che, in buona parte, scappano dai campi di tortura libici nasce, per quanto riguarda l’Italia, dal famoso decreto dello scorso 7 aprile, secondo il quale l’Italia, a causa della pandemia, non è più un porto sicuro.

«È ipocrisia definire i nostri porti non sicuri, come se altrove non sussistesse lo stesso rischio di contrarre il virus per chi sbarca. Una pandemia è, per definizione, globale, nessun luogo è sicuro, meno che mai la Libia che è un Paese in guerra, dove i migranti subiscono abusi e torture. E sicuramente la soluzione non può essere abbandonare i naufraghi al loro destino rifiutandoci di soccorrerli. Le vite valgono tutte allo stesso modo, non possiamo parlare di principio di solidarietà umana quando ci appelliamo all’Europa, perché il nord Italia sta subendo una tragedia umana, ma poi decidere che chi sta più a sud di noi può tranquillamente morire in mare». Dal punto di vista giuridico, poi, il decreto è estremamente discutibile. L’Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione (Asgi) ha pubblicato una una nota in cui vengono approfonditi i possibili profili di illegittimità del decreto.

«Salvare vite umane è un obbligo giuridico, stabilito dal diritto Internazionale, senza distinzioni relative alla nazionalità o allo status dei naufraghi» continua l’avvocatessa. «La nostra costituzione stabilisce che le norme internazionale sono superiori a quelle interne, quindi un decreto ministeriale non può violare quanto disposto da un accordo internazionale. Per tale ragione il decreto che dichiara la chiusura dei nostri porti per mancanza di sicurezza è assolutamente illegittimo». Senza contare che il decreto, secondo Napoli, racchiude al suo interno una grande contraddizione: «Si è disposto che i porti siano non sicuri e dunque inaccessibili solo per i naufraghi soccorsi da navi straniere in acque non di competenza italiana per la ricerca ed il salvataggio. Sono invece consentiti gli sbarchi autonomi, ovvero dei migranti che riescono a raggiungere le nostre coste in maniera indipendente. Una distinzione che non ha alcun senso, la sicurezza di un luogo non può esser fatta dipendere da chi sbarca» ripete Napoli. «Non è cambiato nulla dai tempi del Decreto Sicurezza Bis, si continua a scegliere di penalizzare chi salva vite umane, mentre al contrario, sotto ogni punto di vista dovrebbe essere il diritto umanitario a prevalere».

Sicurezza senza sicurezze

Sarebbe stato possibile trovare altre soluzioni, secondo l’avvocato, perché conciliare il dovere di garantire la salute di tutti, a terra, non è certo contrario a quello di garantire il soccorso di altre vite, in mare: «Già da marzo l’Italia ha disposto uno specifico protocollo riguardante gli sbarchi stabilendo la quarantena dei naufraghi in determinati luoghi appositamente identificati, che continua ad essere applicato a chi giunge autonomamente sulle nostre coste. La questione dei porti non sicuri è solo una scusa dietro cui nascondersi per ridurre il numero delle persone sbarcate. La verità è che questa pandemia è una lente d’ingrandimento, sta portando alla luce tutta la polvere nascosta sotto il tappeto». Nelle ultime settimane gli sbarchi non ci sono certo fermati e, in alcuni casi, neppure l’aiuto umanitario. La Alan Kurdi, nave della ong tedesca Sea Eye che lo scorso 6 aprile ha soccorso 150 persone, dopo aver vagato per il Mediterraneo ed essere stata bloccata a Catania, sarò trasbordata su nave civile per una quarantena.

Resta aperta la situazione della Aita Mari della ong basca Salvamento Maritimo Humanitario, che dopo aver soccorso un gommone con 43 migranti a bordo, è ancora in attesa anch’essa di un porto sicuro.

«Si era detto che i migranti non stavano partendo per paura della pandemia. Una bugia. Era il mare troppo mosso a fermarli, ma appena è stato possibile, gli sbarchi sono ripresi perché, ripeto, la situazione in Libia è atroce, e qualunque alternativa è meglio che restare lì» spiega Francesca Napoli. Se davvero il ministro degli Interni Lamorgese è preoccupata per la sicurezza degli italiani, farebbe meglio a monitorare gli arrivi: «Non essendoci più controlli di alcun tipo nel Mediterraneo centrale i trafficanti saranno invogliati a far partire le persone nel tentativo di raggiungere in maniera indipendente il nostro paese come sta avvenendo negli ultimi giorni. Basti pensare che dal 31 marzo ad oggi sono giunte autonomamente oltre 250 persone sulle nostre coste. Questa situazione favorirà gli sbarchi fantasma, che molto spesso sfuggono alle autorità causando l’effetto opposto da quello auspicato: non sapremo più chi arriva, e in che condizione, mettendo a rischio la salute di tutti».