Taharrush Jama’i, che tradotto dall’arabo suona un po’ come aggressione collettiva. Sarebbe questa, secondo l’antropologa, docente e mediatrice culturale Maryan Ismail, la spiegazione di quanto avvenuto a Milano la notte di Capodanno, dove (almeno) nove ragazze sono state accerchiate da branchi organizzati di ragazzi italiani e stranieri in una violenza sessuale di gruppo.

Secondo Maryan Ismail, che ne ha scritto in un post su Facebook che ha fatto molto discutere, non saremmo di fronte a un classico caso di molestia sessuale, ma ad una strategia di violenza ben collaudata, nata probabilmente in Egitto e diffusasi in tutti i Paesi musulmani.

Spiega l’antropologa: Nel mondo arabo islamico il problema viene affrontato a tutti i livelli, senza nascondere che è specificamente culturale. Trattasi di ulteriori forme di devianza misogina, patriarcale e maschilista. Il senso di questa specifica violenza di genere è il dominio e il controllo sulle donne

Maryan Ismail, che cosa è successo a Milano la notte di Capodanno?

«La stessa cosa che è accaduta in altri Paesi come l’Egitto, dove nel 2011 è esploso il fenomeno. Guardando i video diffusi sulle violenze di Capodanno ho notato che gli aggressori erano organizzati e dato che i ragazzi nei video parlavano arabo, sono andata a fare una ricerca del fenomeno sui siti di informazione arabi. Ho scoperto che il metodo utilizzato da questi aggressori è ben conosciuto».

Si svolge secondo uno schema preciso?

«Consiste nel formare tre cerchi di assalitori attorno alla vittima, dove il primo cerchio è quello che provoca la violenza, il secondo filma e si gode lo spettacolo e il terzo cerchio serve a fare confusione in modo che i passanti non si rendano conto di quanto accade. In più nel primo cerchio, ci sono uno o due persone preposte a tranquillizzare la vittima, dicono che vogliono proteggerla e quindi di affidarsi a loro. In realtà sono essi stessi partecipi alla violenza e questo ha lo scopo di creare sfiducia nella persona aggredita che a quel punto non sa più di chi fidarsi. Dopo si arriva a una violenza vera e propria, dove la ragazza viene palpeggiata, spogliata, si ritrova mille mani addosso, viene penetrata con le dita e se si ha tempo e l’occasione arriva lo stupro».

Che origini ha questa forma di stupro di gruppo?

«Sappiamo che è dal 2011 che le donne denunciano questa pratica. Da allora è diventata un dibattito nazionale e internazionale, perché questa tecnica è stata usata anche in Pakistan, Malesia, Indonesia. E quindi si è capito che il problema era trasversale al mondo islamico.

Varie associazioni femminili hanno fatto pressione e manifestato ai governi e molti stati islamici sono arrivati a prevedere pene severe per chi partecipa ad assalti organizzati di questo tipo. Non si è nascosto la radice culturale ed etnica, si è denunciato anche il tentativo di alcuni Imam di giustificare questi giovani, dicendo che è solo un modo di sfogarsi. In realtà, in maniera sorprendente, queste aggressioni hanno avuto una risposta diversa da parte delle famiglie, da parte dei padri, dei politici e dall’opinione pubblica in generale che hanno condannato fermamente il fenomeno

Nelle violenze di Capodanno sono coinvolti anche ragazzi italiani, quanto conta allora la religione? Non siamo di fronte a una terribile moda social che non ha nulla a che vedere con l’islam?

Certo che la violenza sulle donne è trasversale a tutte le culture e su questo non ci piove. Qui però c’è la predominanza egiziana, sebbene ci fossero anche ragazzi italiani. Infatti, nel video si sente molto bene parlare in dialetto egiziano. Possono essere stati coinvolti anche ragazzi italiani, ma l’idea nasce da quell’esperienza e comunque ignorare il precedente secondo me diminuisce l’efficacia di un intervento e di un cambiamento culturale

«Qui c’è una specificità importate e quindi forse bisogna parlare con le famiglie e dire, bene, il problema è arrivato, ne parliamo? Vogliamo coinvolgere i genitori, i ragazzi le guide religiose? Perché solo in maniera corale si possono trovare degli strumenti, come quelli già adottati da altri Paesi che hanno già avuto esiti positivi. Quindi chiunque voglia affrontare questo tema dal punto di vista politico e amministrativo deve avere la nozione di come è nato il fenomeno e di come si è affrontato, che può essere utile per dare delle risposte sia per gli italiani che per i ragazzi arabi».

Si è parlato molto della provenienza di questi ragazzi. In uno dei tre gruppi che hanno compiuto le violenze, c’erano 12 ragazzi, di cui dieci italiani e solo cinque di loro avevano origini arabe. Quando si finisce di essere stranieri?

Potrebbe sembrare limitato parlare delle sole origini arabe dei ragazzi, ma in realtà fare questo tipo di riflessione va a focalizzarsi su una cultura di dominazione che è dentro le famiglie musulmane. Con questo non voglio stigmatizzare un’etnia, assolutamente. Quando io ho parlato dicendo che non dobbiamo avere paura dell’islamofobia piuttosto che del razzismo, intendo questo, cioè prendere coscienza di un problema culturale interno

«Mi sono occupata per anni di mutilazioni genitali femminili, che è un problema di alcune culture africane. Dal 2006 il rischio che delle bambine possano subire la mutilazione genitale femminile in Italia è davvero diminuito, perché abbiamo istruito le madri sulle leggi che sono oggi promosse nei nostri Paesi. C’è il protocollo di Mobutu che è un protocollo africano, interstatale, trasversale ai Paesi africani dove si ribadisce che il corpo della donna è intangibile. Quindi abbiamo adottato un approccio che non mette in discussione il valore di una cultura a livello personale, ma che fa comunque progredire la posizione di queste donne e di queste famiglie della società».

Secondo lei quindi quali sarebbero le soluzioni da introdurre per arginare queste forme di violenze sessuali di gruppo?

L’educazione e il dialogo interculturale. Se l’espressione degenerata della violenza proveniente da un determinato contesto culturale si manifesta, è giusto ribadire il concetto che le donne sono per ruolo e natura, delle cittadine e quindi sono delle persone rispettabili e devono essere rispettate.

«Perché ci sono delle comunità musulmane che sfuggono al dialogo e al confronto, lo vediamo noi come mediatrici culturali, lo vediamo nelle relazioni tra i servizi sanitari e le donne arabe che ancora adesso vengono accompagnate dai mariti in ospedale quando hanno bisogno di una visita, fanno fatica a parlare l’italiano e sono generalmente madri e mogli. Questo è un limite per l’emancipazione della figura materna, che deve essere matura e costruttiva nell’educazione dei ragazzi. Quindi bisogna lavorare con le madri e i padri per avviare un cambiamento culturale profondo. Altrimenti, se non c’è questo passaggio, c’è un pericolo politico verso l’integrazione, la coesione sociale e verso tutto quello che noi abbiamo messo sul campo per far parlare e dialogare le comunità in maniera serena».