Nel quartiere multiculturale e problematico Corvetto, a Milano, si è creata una rete sociale impegnata nel rinnovamento del tessuto sociale e urbano che cerca di contrastare il degrado, la diserzione scolastica e le nuove povertà. E si sono formate delle piccole isole in cui si respira un’atmosfera effervescente e vivace, nonostante la pandemia, il distanziamento sociale, le bande che si sfidano per tutto o niente alla sera, quando arriva il coprifuoco. Fra le tante associazioni presenti si inserisce l’ambizioso progetto di Dare.ngo, l’organizzazione internazionale fondata da Alberto Sanna che punta ad un impatto sociale innovativo, orientato alla valorizzazione dei giovani con background migratorio che animano il municipio 4. Nasce così il progetto Dare voce che raccoglie e racconta storie di bambini e giovani di Corvetto che hanno lasciato alle spalle la terra d’origine e si trovano a ricominciare daccapo nel nostro Paese. Dare voce ha portato alla creazione di una raccolta di narrazioni, racconti simbolici che racchiudono la storia che accomuna molti giovani figli di immigrati.
Il 21 marzo è uscito il primo episodio della serie, Il mio nome è Eva, disponibile su Amazon e scritto da Azzurra Sorbi, referente dei progetti locali dell’associazione. Questa prima tappa nella narrazione ruota intorno alla dicotomia dell’immigrazione e ne mostra una faccia della medaglia, quella dello strappo dalla madre terra, del disorientamento. Racconta il fardello che i ragazzi che entrano nei centri educativi spesso si portano dietro, quel carico che si può alleviare ma non sempre risolvere. Ma c’è anche la seconda faccia della medaglia, quella su cui invece si può intervenire anche territorialmente, cosa che Dare (parola che in inglese corrisponde al verbo osare) prova a fare. Racconta la riscossa e i successi, stimola la normalizzazione dell’immigrazione e la valorizzazione dell’interculturalità. Facendo dell’empowerment una necessità che si aggiunge all’assistenzialismo.
Il mio nome è Eva
Il primo capitolo di Dare voce parla del popolo curdo, una comunità che in Italia arriva forse a 2500 persone, stima difficile da accertare perché spesso questi migranti vengono registrati come turchi, iracheni, siriani. Un popolo bistrattato, a cui a non è mai stato riconosciuto il diritto di autodeterminazione, un popolo che in questa storia viene rappresentato da una bambina costretta a lasciare il suo villaggio, in Turchia. Eva ha 8 anni e, dopo aver perso la mamma, sbarca legalmente da un traghetto in Italia insieme al fratellino Farhad e al papà Ahmed. Eva è un personaggio di fantasia, ma la sua realtà è quella di tanti giovani che popolano le città italiane, che studiano con noi e come noi si fanno largo nel mondo del lavoro. A differenza nostra però, Eva appartiene a un popolo perseguitato, dimenticato, mai riconosciuto, il popolo curdo.
Viene da una terra che nelle sue ferite porta con sé storie di guerra e di paura, di luci abbassate la sera, di finestre coperte con il cellophane nero per mimetizzarsi con la notte e non diventare facile bersaglio per le milizie armate
Come tanti, Eva e altre profughe curde a cui è dedicato il libro lascia la Turchia e si trasferisce a Milano, dove il padre spera di regalarle un futuro migliore, un’identità. Qui però si deve confrontare con la solitudine a casa e a scuola, la discriminazione, il bullismo dei compagni di classe, la sensazione di galleggiare in un mondo pieno di persone di cui non comprende la lingua.
Eva non vive un processo di inclusione lineare ma rappresenta l’immigrazione forzata, quella della fatica e del sacrificio, dà voce a tutti i giovani disorientati che faticano a trovare un posto e allora popolano le panchine dei nostri giardinetti. Eva dà voce, con la sua storia, a quei ragazzini che spesso vengono considerati scarti, quelli che terrorizzano gli anziani per strada, che disturbano la quiete bivaccando sulle panchine di piazzale Gabriele Rosa. E però sono spesso gli stessi che, come Eva, provano una «lontananza lacerante» e non riescono a disegnare i confini di una nuova vita, il più delle volte non conoscono una parola di italiano e sono schiacciati dalla barriera linguistica oltre che sociale.
Come ci si può sentire a non poter comunicare? Come ci si può sentire a non riuscire nemmeno a chiedere di andare in bagno, perché non si conoscono le parole per dirlo? Come ci si può sentire così inguaribilmente diversi?
L’altra faccia della medaglia: Desirée
Desirée invece ha 25 anni, è di origini filippine e vive anche lei a Corvetto. Ha una storia diversa da raccontare, la sua è quella che lei definisce una «dicotomia non dicotomia», una profonda consapevolezza delle proprie origini che però non è ostacolo ma forza. La sua rappresenta la seconda faccia della medaglia, una doppia appartenenza che la rende consapevole di una doppia identità: «Sono filippina in Italia, ma italiana nelle Filippine. Eppure la vivo bene, mi descrivo come di cittadinanza italiana ma nazionalità filippina». Desirée oggi è neomamma e vede Milano da milanese, si arrabbia per le inefficienze della città, ne vede le bellezze e le brutture. La sua identità non è mai stata messa in dubbio, a differenza di Eva non ha mai subito episodi di bullismo o razzismo, a scuola è sempre stata benvoluta. È convinta che questa differenza sia riconducibile al non aver mai avuto una barriera linguistica perché, essendo nata qui, ha sempre parlato bene italiano.
Ho sempre notato questa differenza con i compagni che non parlavano italiano. Vedevo il loro distacco e il loro rimanere in disparte. Non poter parlare ti distrugge
Fra le tante iniziative di Dare c’è anche il progetto di tutoraggio per i giovani del quartiere che nasce proprio durante la pandemia e si sposta subito online. Sempre più protagonista del contesto multietnico di Corvetto, Dare.ngo si fa strada anche nei progetti internazionali, soprattutto nel Kurdistan iracheno e in Libano. Inoltre, presto verrà lanciata la Corvetto Digital School, che avvicinerà i giovani a un uso consapevole dei social, al coding e alla creazione di app, con la possibilità di fare tirocini formativi. Perché l’immigrazione riparte da qui, riparte dalle opportunità. Quando si narrano l’immigrazione e le nuove generazioni italiane, si narrano tutte le Eva ma anche le Desirée. In una società sempre più culturalmente ricca e varia, emerge il bisogno di avere una voce. Desirée ed Eva sono due abitanti dello stesso quartiere milanese, calpestano le stesse strade e frequentano le stesse scuole. Eppure hanno due esperienze opposte da raccontare, forse un futuro diverso, forse opportunità inique. Comunicare crea ponti, e progetti come Dare voce raccolgono la sfida e promuovono un modello di diversity che parla e aiuta a parlare, rappresentando l’immigrazione in tutte le sue sfaccettature.