Nadia Sa’a: «Sono in Italia da diciotto anni. Da quando ne avevo venti. All’inizio abitavo a Parma, mi sono laureata a Bologna in Medicina e chirurgia. Adesso vivo in Brianza insieme a mio marito Herdos, anche lui camerunense, e ai nostri due figli nati in Italia, entrambi maschi, Kemi di cinque anni e Keba di due. L’italiano ho iniziato a studiarlo nel mio Paese. Era una delle condizioni per poter venire in Italia. Insieme ai 3 milioni e 600 mila lire che i miei genitori hanno dovuto mettere su un conto corrente, a garanzia dei primi sei mesi di permanenza in Italia. Naturalmente se non avessi sostenuto gli esami avrei perso il permesso di studio. Mio padre era un giornalista, è morto l’anno scorso, non era tanto contento che venissi in Italia. Ma il mio sogno era fare medicina e nel mio Paese c’erano appena cento posti. Per arrivare alla laurea ho dovuto fare tanti sacrifici. Di giorno studiavo e frequentavo l’Università, alcuni pomeriggi o sere lavoravo come cassiera in un centro per le scommesse. Nove anni ho lavorato lì. Intanto vivevo alla Casa dello Studente. Poi sono andata in affitto in un appartamento insieme ad altre ragazze. È stata molto dura, ma non sarei mai tornata indietro. La mia motivazione a prendere la laurea era più forte. Adesso lavoro come medico in un ambulatorio di Lecco. Sono una libera professionista, copro i turni delle guardie mediche».

Herdos Tchamba: «Io sono in Italia dal 2006. Ora ho trentacinque anni, una laurea in Economia presa a Trento e lavoro al controllo gestione di una multinazionale svizzera nel settore dell’ingegneria elettrica. Ho scelto Trento per la fama della facoltà di economia e la possibilità di una borsa di studio. Inoltre, mia sorella viveva già a Verona ed è stata lei a darmi questi consigli. Mia moglie Nadia l’ho incontrata a Parma a una festa di camerunensi che si tiene ogni anno attorno a Pasqua. Tre mesi fa poi ci siamo finalmente sposati. All’inizio vivevo a Trento in uno studentato. Vivevo con una borsa di studio di circa 4.000 euro, 2.000 euro concessi fin dall’inizio del primo anno di corso e poi altri 2.000 se si rispettava il piano di studi. Mi è sembrato che delle volte i miei amici italiani all’università non capissero la mia difficoltà a stare in loro compagnia. È capitato che non avessi 5 euro per l’aperitivo e hanno pensato che non volessi socializzare. Invece per me a quell’epoca anche quei 5 euro erano tanti».

Nadia Sa’a: «Sono studenti. Non potevano capire che nella nostra condizione si guarda anche a un euro».

Herdos Tchamba: «All’inizio pensavo di andare in Germania dove c’è mio fratello. Ma là non davano le borse di studio e poi era abbastanza difficile combinare studi e lavoro. A Trento che è una città piccola ci si conosceva tutti. C’era poco tempo per il divertimento dovendo economizzare e studiare per dare gli esami e non perdere la borsa di studio. La vita di uno studente straniero è abbastanza solitaria, lontano dalla famiglia e dagli amici d’infanzia».

Nadia Sa’a: «Io a Parma frequentavo la chiesa cattolica, come al mio Paese. Cantavo nel coro. È stato anche quello un modo di integrarsi. All’università eravamo sette studenti dal Camerun. Gli altri studenti stavano lontani. Ma poi è la vita scolastica che ti unisce. Chiedi gli appunti, informazioni su un corso o un professore…».

Herdos Tchamba: «Non che allora fosse facile ma adesso è peggio. La crisi conta tanto. La gente vive male se vede che hai un lavoro non pensa ai sacrifici, agli studi o a quanto vali. Trovare lavoro non è mai stato facile. Ma quando lo trovi capisci l’opportunità che arriva da un datore di lavoro. Chi decide di assumerti poi non è che improvvisamente si mette a trattarti male. I primi anni ho lavorato semplicemente come contabile».

 

Nadia Sa’a: «La cosa più difficile è trovare casa. Quante volte ci hanno detto no solo perché eravamo stranieri… Se al telefono mi chiedevano se ero italiana non li richiamavo più. Non è che tutti i padroni di casa sono razzisti. Tante volte non vogliono gli stranieri solo perché pensano che gli altri inquilini poi si mettono a protestare. Il razzismo si può trovare anche sul mio posto di lavoro. Quante volte un paziente mi ha detto: “Vai a curare la gente a casa tua!”. Oppure entrano in ambulatorio e mi chiedono chi è il medico, pensano che io sia solo un’infermiera. Una volta ho diagnosticato la varicella a un bambino. I suoi genitori hanno voluto il parere di un altro medico che ha ovviamente confermato la mia diagnosi. È brutto ma la cosa che mi interessa di più è che il paziente sia a suo agio. Alla fine sono casi eccezionali. Dai pazienti o dai loro famigliari arrivano anche complimenti per la tua capacità professionale e non ti giudicano per il colore della pelle».

Herdos Tchamba: «A mio parere a scuola dovrebbero valorizzare le differenze. Mio figlio non dovrebbe sentirsi diverso perché ha i capelli ricci anziché lisci. Al parco giochi è capitato che qualche bambino non volesse giocare con lui per il colore della sua pelle. Non sono cose che si inventano i bambini. Sono discorsi che sentono in casa. Se mi accorgo che un genitore non interviene glielo faccio notare. Per avere lavorato come assistente in una colonia estiva a Cesenatico, posso dire con certezza che i bambini non hanno paura delle differenze. Sono i genitori a dare insegnamenti sbagliati sul colore della pelle o sulla provenienza. In questo modo pensano forse di proteggerli ma si tratta di un pericolo che non esiste».

Nadia Sa’a: «Noi non siamo solo quelli che scendono dai barconi, affamati o malati. Io sono una dottoressa, ho una laurea in medicina. Tra noi stranieri ci sono delle eccellenze che non vengono valorizzate».

Herdos Tchamba: «La mia impressione e che in dodici anni di permanenza in Italia sia cambiato poco. Le difficoltà e i problemi sono gli stessi dei primi tempi. Si fa fatica a trovare casa anche con delle disponibilità economiche, a trovare lavoro anche con delle buone competenze o ancora ad ottenere un prestito in banca. Penso sia soprattutto legato al fatto che la comunità straniera non disponga di potere politico o economico, bisogna costituirci in associazione a livello nazionale. Bisogna che chi diventa italiano vada a votare, si faccia notare. Al momento manca in Italia un chiaro percorso di integrazione. Sembra quasi che ci sia la rincorsa a fare la legge più brutta contro gli stranieri perché si pensa che in tal modo l’Italia andrà molto meglio».

Nadia Sa’a: «Io ho la cittadinanza italiana. Ma per far valere questo mio diritto sono dovuta andare da un avvocato».

Herdos Tchamba: «In linea generale, se un italiano ha difficoltà, la fatica è raddoppiata per lo straniero. Non serve cercare di rendere ancora più difficile la nostra esistenza».

Nadia Sa’a: «Però se va avanti così è difficile che restiamo in Italia. Non ci sentiamo di meritare tutte queste cose che stanno accadendo. Prima non ci guardavamo in giro. Abbiamo comperato casa qui, la nostra idea era rimanere qui. Ma adesso è diventato più facile pensare che prima o poi si possa andare a vivere in un altro Paese».

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *